Ambiente  |  gennaio 31, 2021

La gestione delle risorse idriche e del suolo sarà la sfida dei prossimi anni

Si parla ormai da tempo di "Montagna dimenticata" ed è proprio così. L'abbandono e l'incuria la fanno da padroni, come dimostrano anche molti episodi recenti di frane e smottamenti. La necessità di norme nazionali per la tutela e messa in sicurezza del territorio. Proposte per il futuro prossimo? Incentivare e sostenere la ripresa di una nuova progettazione per sistemazioni idraulico-agrarie e forestali in chiave moderna

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Terrazzamenti abbandonati

Sono nato a San Marcello Pistoiese ed ho vissuto la mia infanzia a Spignana e, più precisamente, in uno dei poderi più in alto, Fatini, di cui ora sono rimaste solo due colonne portanti avvolte da rovi e sterpaglie a testimoniare il passaggio dell’uomo. Ricordo che l’abbandono fu doloroso perché tanto mi ero affezionato a quella terra che ho continuato ad amare e a mantenervi un legame. Oggi poi, grazie anche ai social e all’Associazione Culturale Lettera Appenninica, che tanto si impegna per la valorizzazione della montagna e di cui mi onoro di far parte, quel legame è anche più vivo e ne seguo le vicende quotidiane.

Brutte notizie dai social

Pochi giorni fa apprendo che una frana ha interrotto la strada tra Lizzano, o meglio tra Lancisa e Spignana; da una foto mi sembra di capire che quell’interruzione è nelle “Forri”, così chiamavamo quel costone ove passava un sentiero scosceso che collegava i poderi sopra Spignana a Lancisa e che facevamo a piedi, con qualche timore per un inspiegabile alone di mistero riferito a quel luogo, per andare a Lizzano. Ancora sui social apprendo, in tempo reale, che una frana ha bloccato la Statale 12 che va da La Lima all’Abetone, con conseguenti disagi per il blocco delle auto. La sera ascolto con attenzione le notizie del TG3 della Toscana dove la notizia viene data con un semplice “problemi di viabilità anche sulla Montagna Pistoiese”. “Montagna dimenticata” scrive un mio amico sui social. Affermazione, purtroppo, quanto mai adeguata anche perché è da molto tempo che ciò avviene.

Il consumo eccessivo del suolo

Può sembrare strano ma riflettendo sulle disavventure della mia montagna mi sono tornate alla mente le code chilometriche che ho visto quest’estate, in barba al distanziamento sociale, alla partenza degli impianti di risalita nelle Dolomiti; particolarmente impressionante quella a Malga Ciapela per salire sulla cima della Marmolada; comprensibile, visto che il ghiacciaio si ritira a vista d’occhio perché perdere l’occasione di calpestarlo fin che c’è! Quello che più mi colpì e che però non fu evidenziato dai mezzi di comunicazione di massa fu l’aumento impressionante di ampie aree, limitrofe alle aree di partenza di questi impianti, adibite a parcheggio per accogliere il considerevole aumento delle auto dei turisti stessi. Ciò ha comportato il compattamento indiscriminato del suolo effettuato con l’assestamento della copertura con breccino che ha alterato un’importante funzione del suolo stesso che è quella legata all’infiltrazione dell’acqua. Quello che i mezzi di comunicazione però riportarono, furono le notizie sulle numerose esondazioni di piccoli torrenti e fiumi (l’Avisio e l’Adige, ad esempio) attribuendole a eventi piovosi di notevole intensità ma che ormai, alla luce dei cambiamenti climatici in atto, eccezionali non sono più. È evidente che se si continua a impermeabilizzare il suolo (a consumare il suolo) o a ridurne drasticamente la capacità di infiltrazione in vaste aree proprio nei fondovalle adiacenti ai corsi d’acqua e dove sono collocati la maggior parte degli impianti di risalita la situazione peggiorerà ancor di più, visto l’ormai consolidata tendenza degli andamenti climatici che prevedono sempre più frequenti nubifragi di notevole entità.

Spopolamento e abbandono

Per contro esiste un’altra montagna, quella povera, dimenticata, appunto, di vaste aree dell’Appennino, proprio come la mia montagna, che da anni va incontro ad un progressivo spopolamento e l’abbandono, la mancanza di cura e di quella manutenzione che i vecchi agricoltori, allevatori e operatori di vari settori operavano ha portato al degrado attuale, con i vari smottamenti in seguito a eventi meteorici estremi; i vecchi sentieri sono diventati per lo più fosse di scorrimento dell’acqua; il bosco riconquista in maniera disordinata i campi che prima erano coltivati o erano prati per il pascolamento del bestiame. In quelle zone il turismo è quasi scomparso e, peggio, quei territori così fragili devono sopportare l’invasione, in particolari periodi, di orde umane alla ricerca, o meglio alla predazione, di funghi o altri prodotti del bosco.

Boschi abbandonati

Gran parte dei nostri boschi sono stati abbandonati da tempo in larghe aree del nostro Paese. Purtroppo anche da li si sono innescati i dissesti idrogeologici che i cambiamenti climatici stanno accentuando. In quei boschi si diffondono a mo’ di infestanti la robinia (acacia), la cui diffusione viene incrementata anche in seguito al passaggio di incendi, e i rovi che occludono i vecchi sentieri rendendo quelle foreste non più fruibili.

È assolutamente indispensabile quindi l’attuazione di quella pianificazione forestale prevista dal d.lgs 3 aprile 2018, n. 34 (testo unico in materia di foreste e filiere forestali) per tutelare e valorizzare le funzioni del bosco e promuoverne una gestione sostenibile.

Né campi coltivati né sciacqui

Sono figlio di un pastore che nell’inverno, quando il gregge era in Maremma con mio nonno, andava a “ripulire” i castagni (in pratica effettuava una potatura) e ricordo che la mattina partiva con il tascapane, l’accetta e la zappa. A una mia domanda sul perché portasse anche la zappa lui rispondeva che serviva per ripulire gli sciacqui. Al successivo mio perché (avevo l’età dei tediosi “perché”) lui, con pazienza, mi diceva che l’acqua doveva scendere piano, piano. Gli sciacqui erano dei solchi trasversali alla linea di massima pendenza ed avevano proprio lo scopo di evitare che l’acqua, nello scendere a valle, si accumulasse troppo, tanto da scorrere in modo turbolento, causando quella che chiamiamo erosione idrica del suolo. Quegli stessi sciacqui si facevano anche nei campi coltivati proprio per regimare lo scorrimento delle acque superficiali. Ora in montagna i campi non si coltivano più ma anche dove si coltivano gli sciacqui non si fanno più! “Con la modernizzazione dell’agricoltura si è persa la coscienza sistematoria”, ripetevo nelle mie presentazioni in vari consessi, quando ero in servizio, suscitando spesso l’ironia della platea, al che facevo vedere le immagini del disastro del 2009 di Giampilieri (Messina) causato dall’abbondono della manutenzione dei terrazzi coltivati a monte. Oltre alla perdita di vite umane, la messa in sicurezza del territorio dopo il disastro è costato alla comunità molto di più di quanto sarebbero costati interventi programmati di manutenzione.

I rischi per il futuro

Altro esempio: il disastro di Sarno del 1998 è imputabile, oltre al tipo di suolo di per sé fragile e capace di assorbire acqua fino a quattro volte il proprio peso perdendo così la sua consistenza in caso di eventi piovosi estremi, al completo abbandono della vecchia regimazione idrica messa in opera dai Borboni, i così detti “regi lagni”; a ciò si aggiunge la cementificazione (impermeabilizzazione, consumo di suolo) a valle ed ecco il disastro!

“Il Bel Paese sta crollando!” è un titolo che purtroppo capita di leggere spesso sui mezzi di comunicazione di massa. I ricercatori della scienza del suolo hanno sempre lamentato la non adeguata attenzione in quasi tutte le sfere della società civile, sociale, politica e amministrativa, verso la conoscenza e la protezione del suolo. Eppure la sua degradazione rappresenta ormai un’emergenza a livello planetario, risultando anche una minaccia per la produzione agricola nel lungo termine, non poi così lontano visto che, secondo le previsioni, nel 2050 saremo oltre 10 miliardi di persone da sfamare e, ad oggi, i terreni agricoli di buona qualità si stanno riducendo a causa, proprio, del consumo di suolo; guarda caso il 95% del cibo per l’alimentazione umana proviene proprio da queste terre. In Italia, tale emergenza è tanto più pressante non solo a causa dell’alta variabilità dell’ambiente, ma anche per la presenza di molti tipi di suolo caratterizzati da vulnerabilità senza dubbio più alta rispetto agli altri Paesi Europei. Proprio quella variabilità che ha contribuito, con i suoi scenari, a far guadagnare, appunto, l’appellativo di “bel paese” all’Italia.

Serve una corretta gestione delle risorse idriche

In sostanza, credo di poter sottolineare con forza che la corretta gestione delle risorse idriche e del suolo sarà la sfida dell’immediato futuro. Occorrerebbero intanto norme nazionali per la protezione del suolo, per invertire la tendenza al suo consumo, tutt’ora crescente, e per la tutela e messa in sicurezza del territorio. Sarebbe necessario incentivare e sostenere una ripresa di una nuova progettazione di sistemazioni idraulico-agrarie e forestali in chiave moderna. Anche perché, proprio in questa montagna, così impoverita, si possono trovare esempi virtuosi di imprenditori, per lo più giovani, che hanno ripristinato e modernizzato aziende come, ad esempio, l’allevamento di ovini o bovini e la relativa trasformazione del latte o la coltivazione di produzioni tipiche della montagna i cui effetti collaterali di queste attività sono rappresentati dall’encomiabile protezione del territorio.

Ciò dimostra che una soluzione ci sarebbe per salvare queste aree montane e prevenirne il degrado: basterebbe sostenere e investire risorse per incentivare queste iniziative; sarebbe anche un modo intelligente di destinare risorse alla prevenzione del territorio anziché a interventi riparatori dei vari dissesti.


La Redazione

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