L'intervista  |  agosto 4, 2016

Davide Sapienza: “Sono ancora quel ragazzo che restò incantato da Moby Dick”

Intervista a Davide Sapienza, scrittore, "geopoeta", traduttore di classici, autore di note biografie rock, autore televisivo e conduttore radiofonico. Sarà ospite a LetterAppenninica sabato 6 e domenica 7 agosto. La sua è una vastissima produzione letteraria, difficile da catalogare: "Ripetermi per me è impossibile". Dopo gli anni frenetici dei libri rock e del giornalismo musicale, la scelta della montagna. "La mia è una poetica da rabdomante: seguo gli impulsi e lascio fare all'istinto, poi arrivano le parole". Il sogno nel cassetto? "Tradurre Moby Dick"

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ABETONE – Scrittore, “geopoeta”, traduttore di classici, autore di note biografie rock, autore televisivo e conduttore radiofonico, oltre che inviato per testate giornalistiche prestigiose, Davide Sapienza  è fra gli ospiti di spicco di LetterAppenninica, la rassegna culturale di scena sulla Montagna pistoiese (e non solo) da venerdì 5 a domenica 7 agosto. Sapienza sarà protagonista di due incontri, sabato alle 16,30, ad Abetone, al bar “La Casina” e, il giorno successivo, al Parco delle Stelle di Pian dei Termini, alle 18. Lo abbiamo incontrato prima dei due appuntamenti letterari per parlare con lui di questo e molto, molto altro. Ecco il resoconto dell’intervista.
Sapienza la tua vita artistico-professionale appare straordinariamente prolifica: gli esordi negli anni ’80 con “L’urlo di carta” e il giornalismo musicale, quindi il viaggio e l’esplorazione, l’attività di scrittore, poeta, traduttore: un percorso letterario molto dinamico, articolato, fuori da ogni schema. E’ stata una scelta dettata dalla voglia di spaziare fra generi, una ricerca continua di sperimentare nuove esperienze, o cos’altro?
“Sin da ragazzo la cosa per me più importante era la ricerca di un’espressione adatta alle cose che avevo da dire. La grande passione per la musica (incluso da ragazzino lo studio del pianoforte) e la sua carica che reputo, ancora oggi, inarrivabile per qualsiasi altra forma d’arte, fece si che con il rock e quello che “c’era nell’aria” crescendo nei potenti anni ’70 potessi trovare in me, attraverso lo scavo fisico fatto dal suono dentro la mia psiche, visioni che ho cercato di perseguire per tutta la vita. Cambia il mezzo espressivo, cambia il sentiero, ma non il cammino. Io sono ancora quello che leggendo ‘Moby Dick’ da piccolo restò incantato dalla frase ‘Sulla mappa non c’è. I luoghi veri non lo sono mai’. L’irrequietezza credo sia parte dell’epoca in cui sono nato e cresciuto, ma anche della voglia di verità, libertà, orizzonti, fratellanza, comunione con la Terra. Ripetermi, è per me impossibile, non ce la faccio: potrei fare scelte più commerciali, ma ho qualche meccanismo psichico che me lo impedisce. Il che non toglie che a 21 anni quando pubblicai per Arcana i primi libri al mondo su U2 e Simple Minds, questi diventassero dei best seller del genere. Per me, dentro quei testi di musicisti miei coetanei, c’era tanto di quello che volevo dire. Anche con ‘L’urlo di carta’ e la rivista ‘Fire’, che durò sette anni e resta, probabilmente, la più grandiosa esperienza editoriale che ho vissuto”.
Hai detto che per te la poesia è sempre stata la forma espressiva in grado di farti “comprendere le connessioni a un livello primario”, la strada sulla quale “fin da giovane mi sono incamminato”. Quindi è la poesia la vera chiave di lettura per comprendere la tua opera, il filo che tiene unito tutto il tuo lavoro di scrittore? E se è così perché la tua prima composizione propriamente poetica è arrivata tardi?
“Si. La poesia è sempre stata con me e quando traducevo i musicisti rock, leggevo Morrison o Cohen o Dylan come avrei potuto leggere Blake o Foscolo e Leopardi o i poeti nativi americani. La poesia per come la vedo io non è quella codificata dai troppi che vogliono autolesionisticamente confinarla a forma espressiva di e per pochi. Pubblicare la raccolta Il durante eterno delle cose per Feltrinelli Zoom Poesia è per me stato un nuovo punto di partenza. La chiusura di un cerchio. Ho limato tantissimo e ho raccolto materiale capace di poter essere come il suono e, per citare il grande Franco Mussida, ‘tutto quello che c’è negli intervalli: perché meno è veramente di più’.

Veniamo al rapporto con la natura, e la montagna in particolare, che nei tuoi testi ha una grande importanza e che è anche uno dei motivi della tua presenza a “LetterAppenninica”, sabato prossimo ad Abetone e domenica a San Marcello. Ce ne vuoi parlare?
“Il percorso è stato abbastanza naturale. Sin da bambino e da ragazzo, adoravo il parco di Monza (città dove sono nato e cresciuto), ma anche la montagna dove ora vivo, la Presolana, perché trascorrevo i mesi estivi a confrontarmi con le grandi dimensioni delle forme naturali che dai 2500 metri disegnavano percorsi magici sin giù al lago d’Iseo, un vero fiordo nato dal ritiro del ghiacciaio dell’Adamello. Io in montagna sto bene e sono sereno. Dopo i primi frenetici anni di libri rock e giornalismo musicale, decisi che era tempo di muovermi verso una ‘periferia dell’impero’ che mi desse gli spazi per elaborare meglio il mio futuro. Avevo bisogno di svegliarmi e vedere alberi, crinali, radure, torrenti, rocce, cielo. E anche quando nevica o piove, voglio che sia roba veramente potente. Ho bisogno di quella potenza. É l’energia che sento dentro me infusa da questa meravigliosa comunità della Terra. Dunque io, per citare Krishnamurti, davvero credo che la Terra sia il mio corpo. Lo sento. Non ne posso fare a meno: un corpo in viaggio nel misterioso universo elusivo, proprio come la nostra psiche e lo spirito della Vita”.
Sembra che negli anni tu abbia percorso due strade parallele: il viaggio fisico e il viaggio artistico, parallelo o subito conseguente al primo. Per quanto tu conosci la nostra Montagna quali stimoli potrebbe forniti (o ti fornisce) il camminare i nostri sentieri, scoprire vette, laghi, boschi, paesi…? Quale percorso artistico potrebbe seguire quello fisico?
“Sembra retorico dirlo, ma il mondo appenninico mi attrae infinitamente e non da pochi anni. Lo conosco ancora troppo poco, ma abbastanza per dire che sono gli spazi e la bassa antropizzazione a renderlo per me cosi attraente. Sono affascinato da come un territorio e la relazione che noi stabiliamo con esso determinano la geografia: che a differenza della storia, non mente mai. Per questo spero che a Letterappenninica io possa apprendere tanto e poi potere elaborare idee per il futuro del mio modo di muovermi sul territorio”.
“Sentieri d’autore”, la rubrica che curi ogni venerdì sull’edizione di Bergamo del Corriere della Sera, oltre che un ritorno del tutto particolare alla scrittura per un giornale, sembra essere anche la conferma di un rapporto privilegiato con la natura. Cosa hai “scoperto” negli oltre cento percorsi che hai compiuto per il Corriere?
“Lo splendore del camminare è che denuda i tuoi limiti, ti mette davanti l’ignoranza come ‘valore’ propulsivo per cercare di comprendere meglio ciò che già conosci e soprattutto, ascoltare cosa ha da dire il genius loci di ogni luogo che visiti. La fortuna di questa rubrica, davvero unica per un quotidiano di questo livello, è che sono stato ingaggiato perché sono come sono e scrivo come scrivo, dunque ho la totale libertà di scelta che ovviamente si incastra bene con il concetto poetico più intenso, ovvero la ricerca dello stimolo a vedere le cose diversamente e a incuriosirsi per potere cercare il proprio sentiero, di cui essere autori, a partire dalla mia proposta. É un’esperienza che viene completata dai tanti reportage lunghi e ovviamente, dal lavoro fotografico, che è sempre tutto portato a termine da me. Perché io fotografo come scrivo”.
A proposito di viaggi e sentieri, per spiegare la tua opera parli di “geopoetica”. Vuoi provare a spiegare cosa significa esattamente? E perché Akira Kurosawa e il suo cinema sono l’esempio migliore per capire questa espressione?

“La geopoetica è stata lanciata da Kenneth White, filosofo e viaggiatore scozzese. Esiste un’istituto geopoetico in Francia, da lui diretto. É comunque, per quel che vedo, troppo istituzionalizzato. La mia idea di geopoetica è in realtà qualcosa di semplice, direi di olistico: siamo parte di qualcosa di più grande e ognuno ha un talento da esprimere – e ha il dovere di esprimerlo. Geopoetica è vedere le cose che sfuggono, in contesti palesi e cose palesi che sfuggono in contesti poco conosciuti. Sono i luoghi, i sentieri, le vie invisibili per citare Franco Michieli, a venire a te. La mia è una poetica da rabdomante: seguo gli impulsi e lascio fare all’istinto, poi arrivano le parole, ma solo dopo, per provare a cartografare una geografia che sia sempre nuova. L’ho scritto nel mio libro-manifesto, I Diari di rubha hunish del 2004: non è vero che non c’è rimasto nulla da scoprire. Ogni volta che si va in un luogo e lo si incontra per la prima volta, la cosa è reciproca. É un atto creativo. É il re-creare latino, un modo per dire che non per forza a Pisa devi vedere la leggendaria torre pendente, ma anche quella. Però se vai per vedere quella, allora la montagna o qualsiasi altro luogo che cerchi si riducono a una pianificazione aziendale. Invece il mondo è grande e noi creature del mondo anche, perché ne siamo parte ed espressione”.
Tu dici che per leggere una poesia l’e-book è perfetto. Poco testo, basta una lampadina e via. Ma è solo la brevità del testo poetico o non è piuttosto il tuo rapporto positivo con le nuove tecnologie, anche relativamente alla scrittura, assai più possibilista di quello di tanti altri colleghi e lettori?
“La mia è stata anche una provocazione, l’esortazione a uscire dal feticismo dell’oggetto libro. Per le mie, di poesie, l’ebook si è rivelato perfetto: se poi si ha una tale resistenza all’idea di leggerlo su ereader, smartphone o computer all’esorbitante cifra di 1,99 euro, significa che in realtà non ti interessa davvero ciò che ho scritto. Va bene lo stesso. Non c’è problema. Sarà per un’altra volta. Le tecnologie sono l’espressione di un momento storico. Immagino sempre il giorno in cui i libri diventarono oggetti di massa: sicuramente ci saranno stati i feticisti delle pergamene che si devono essere sentiti derubati di qualcosa. E in termini pratici, l’ebook aiuta i libri: i dati lo dimostrano, ovviamente in Italia è diverso. Ma questo perché, per citare i leggendari Area, vige la gerontocrazia interiore, anche nei giovani che credono di rappresentare un’editoria che, in realtà, non esiste più. E con circa 60 volumi pubblicati, tra quelli da autore a quelli da traduttore, credo di potere dire qualcosa degli ultimi 32 anni di editoria e giornalismo”.
A proposito, che ruolo hanno avuto e continuano ad avere le traduzioni di testi letterari, quelli di Jack London in particolare, sulla tua produzione letteraria? E la lunga e prolifica attività di scrittore, curatore e traduttore nel settore dell’editoria musicale?
“Tradurre è spettacolare, magnfico. Hai l’opportunità di cambiare mestiere e di essere un altro. Con Jack London è poi un discorso molto particolare. Non immaginavo, dieci anni fa, che le mie traduzioni sarebbero state poi considerate come quelle che hanno rinvigorito e fatto scoprire aspetti del grande autore meno o affatto conosciuti. Una cosa mi sento di dire: la traduzione d’autore non esiste. Esiste la traduzione, ed esiste l’autore. Quando traduco London, traduco ciò che ha scritto e cerco di dargli la tensione, in italiano, che la sua straordinaria forza narrativa ha. Riconoscimenti come quelli di Marco Paolini o Goffredo Fofi, di tanti giovani che hanno realizzato tesi su di lui, di tanti lettori che mi scrivono, è veramente qualcosa di grande. E poi c’è Barry Lopez, il mio grande maestro, e amico, autore di capolavori come “Sogni artici” e “Lupi e uomini’, del quale ho curato – in collaborazione con lui – un volume straordinario: ‘Una geografia profonda’, che è la “intimate geography”, ovvero, la mia geopoetica. Ma prima di morire, mi toccherà tradurre ‘Moby dick’. Lo sogno da quando sono ragazzo”.

BIOGRAFIA ESSENZIALE DI DAVIDE SAPIENZA

Scrittore e geopoeta, traduttore di classici (Jack London, E.A. Poe, Barry Lopez) e autore di reportage, Sapienza vive la scrittura come strumento privilegiato per esplorare le connessioni naturali e culturali attraverso il lavoro “sul campo”, in viaggio e in cammino. Dopo venti anni dedicati professionalmente alla musica come autore di note biografie rock, autore televisivio e conduttore radiofonico, oltre che inviato, nel 2004 pubblica l’originale “journal” psicogeografico I Diari di Rubha Hunish seguito da esperimenti narrativi dei quali si ricordano La valle di Ognidove, La strada era l’acqua (ristampato nel 2015), La musica della neve, il manuale Zanichelli Scrivere la natura e Camminando. Nel 2012 fonda “Diritti della Natura Italia” e il percorso si arricchisce tornando a un grande quotidiano (dopo l’esperienza a La Stampa) dal 2013, invitato dal dorso bergamasco del Corriere della Sera a realizzare reportage, editoriali e la rubrica “Sentieri d’autore”. É stato tra i primi scrittori italiani a utilizzare come strumento divulgativo i cammini letterari e i viaggi d’autore. Vive nelle Orobie dal 1990 e grazie a questa scelta ha potuto trovare terreno fertile per la sua visione naturale e letteraria che lo ha portato a partecipare a diverse rassegne internazionali. Tra i premi, da ricordare “Le Ghiande” di Cinemambiente, istituito a Torino nel 2015. Nel marzo 2016 ha pubblicato per Feltrinelli Zoom la raccolta di poesie Il Durante Eterno Delle Cose. Il suo sito è www.davidesapienza.it.


Paolo Vannini

Laurea in scienze politiche, giornalista professionista dal 1998, ha lavorato nei quotidiani La Nazione e Il Giornale della Toscana (edizione toscana de Il Giornale), è stato responsabile dell'Ufficio comunicazione del Comune di Firenze, caporedattore dell'agenzia di stampa Toscana daily news, cofondatore e vice direttore del settimanale di informazione locale Metropoli. Ha lavorato presso l'Ufficio stampa di Confindustria Toscana, ha collaborato e collabora per diverse testate giornalistiche cartacee e on line - fra queste il Sole 24 ore centronord, Il Corriere Fiorentino (edizione toscana del Corriere della Sera), Radio Radicale - si occupa di uffici stampa e ghost writing.