C’è un verbo, estremamente espressivo, nella nostra Montagna pistoiese che indica speranza, promessa di una nuova stagione, rigenerazione naturale e spirituale. Questo verbo è Dimoiare che i nostri nonni pronunciavano con un certo piacere perché, dopo una stagione di neve e gelo, il ghiaccio a primavera si scioglieva e si aprivano le porte di casa e dello spirito ad un nuovo tempo di operosità, di creatività, ma anche di sudore e di sacrifici.
Credo che non sia un caso che Federico Pagliai, figlio non degenere di questi nostri monti, abbia scelto proprio Dimoiare come titolo del suo ultimo romanzo: è un suggello di appartenenza e di amore nei confronti di quassù o, come si direbbe oggi con un termine assolutamente asettico ed estraneo alla nostra cultura, di resilienza.
Eppure parte del romanzo, quella più intrigante e densa di spiritualità, è ambientata negli Stati Uniti, e precisamente nell’Ohio, dove tutto sembra estraneo e per certi aspetti “alieno”, e anche qui l’autore tradisce le sue radici quando si sofferma su descrizioni naturalistiche e sull’universalità dei temi esistenziali, perché anche in quella terra lontana la vita “gemica di vita” e vi giunge il tempo di dimoiare, per tutti. Per alberi e uomini.
Ma vi è anche un’altra parte, direi “autobiografica”, o almeno legata alla quotidianità di Federico, cioè la sua esperienza di infermiere, che sta a contatto con la sofferenza, con la malattia e che ne fruga gli aspetti più reconditi di tragicità e di eroismo.
Questo fardello psicologico, che si trasforma in una definitiva catarsi esistenziale, viene calato nell’anima del protagonista, Maurizio, che cerca di recuperare faticosamente il rapporto con la madre; anch’egli alla fine dimoia, si scioglie ad un senso più profondo di umanità, liberandosi dal ghiaccio dell’orgoglio e del risentimento.
E’, questo, un romanzo avvincente, in cui non sono rari i colpi di scena e, pur costruito su una storia vera, è in realtà l’invito ad una profonda riflessione individuale e collettiva sul male, sul dolore e sui tesori che la vita ci offre, anche nelle sue manifestazioni apparentemente più logoranti , apocalittiche e per certi versi paradossali.
L’approdo, che è anche la conclusione del romanzo, è il raggiungimento di una splendida verità escatologica: “una regìa da qualche parte c’è e niente accade per caso, anche quando tutto sembra immodificabile e senza più alcuna via d’uscita” e a questa verità si può giungere solo attraverso la celebrazione della vita come dono, della solidarietà, dell’amore, ma anche attraverso l’acquisizione di una coscienza profonda di ciò che siamo e di ciò che invece potremmo essere.