Sambuca, Personaggi e Interpreti  |  luglio 22, 2023

Da Taviano a Nizza, i ricordi d’infanzia di un emigrato

Henri Barbi ripercorre la sua infanzia e i due mesi estivi trascorsi a Taviano negli anni '60. “A casa nostra era un bel miscuglio linguistico. I nonni parlavano fra loro sambucano, i miei genitori nizzardo o francese”.  Il lungo viaggio in treno dalla Francia alla montagna pistoiese, per raggiungere il paese d’origine. Il profumo di abeti e castagni, il fiume Limentra, l’acqua da bere ogni giorno alla sorgente del Catinino. E ancora il mulino della nonna Vittoria, i giochi con gli amici, le partite di calci al campo sportivo, il bar, la chiesa e l’amatissimo parroco Don Matteo. Poi la fine delle vacanze e il ritorno a casa

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Queste pagine meritano di essere mantenute nella forma con cui le ha scritte qualche settimana orsono Henri Barbi perché, seppure con qualche imperfezione, mostrano come dopo 60 anni la lingua italiana sia ancora viva nella mente di Henri, insieme ai suoi ricordi tavianesi ed al legame con la sua famiglia di origine, che è la stessa del grande filologo Michele Barbi

 

La mia famiglia dalle parti del mio babbo viene di Taviano.

Il mio nonno Francesco Barbi aveva due sorelle. Maria fece la sua vita a Firenze mentre la Linda immigrò negli Stati Uniti d’America e lui in Francia nel 1926.

Quando emigrò venne a Nizza lasciando la nonna e i suoi due figli al paese. Come la sua situazione politica impediva il suo ritorno, fece venire in Francia moglie e bambini.

Il mio babbo nacque a Nizza nel 1927 e diventò francese.

La nonna Vittoria Giagnoni aveva 5 sorelle ed un fratello; era figlia del mugnaio Antonio e sua moglie Rosa. Cosa strana il mio babbo si chiama Antonio e mia mamma Rosa come i miei bisnonni.

A casa nostra era un bel miscuglio linguistico. I Nonni parlavano Sambucano tra di loro e i miei genitori nizzardo o francese.

Con me il nonno parlava italiano e mi parlava sempre del suo paese amato più di tutto. La nonna parlava un francese italianizzante perché faceva la spesa e doveva frasi capire. Tutto questo piccolo mondo viveva sulla proprietà con zii, zie, cugini e cugine lavorando la terra per fare crescere dei garofani che era a quell’epoca il fiore emblematico di Nizza.

Nell’inizio degli anni ’60 passavo due mesi a Taviano con i miei nonni.

La cugina di mia nonna, Giacomina e suo marito  ci ospitavano per il soggiorno.

Le vacanze a Taviano

Le vacanze iniziavano con un lungo viaggio in treno. A quell’ epoca non si trattava di TGV ma di un treno a vapore che metteva 12 ore per raggiungere Firenze partendo da Nizza. Questo viaggio mi pareva un secolo, soprattutto la fermata a Ventimiglia di due ore, al sole, col passaggio alla dogana. Per il bambino che ero, suscitava l’angoscia di vedersi impedire di andare avanti mettendo uno stop definitivo alle vacanze tanto aspettate. Ma sempre le cose andavano bene, il treno fischiava, fumava e la magia incominciava.

Passato il confine di stato tutto cambiava, colori, ambiente, e della finestra la scoperta di un mondo nuovo si svolgeva davanti i miei occhi meravigliati.

Arrivati a Firenze il caldo era insopportabile e si stava per 2 o 3 giorni dalla zia Maria, sorella del nonno, immensità di bontà e d’amore, sempre sorridente. In quei giorni partivo alla scoperta della città con lo zio Sergio che mi spiegava ogni cosa camminando in questo museo all’aperto, che, non lo sapevo ancora, condizionerà la mia passione per la cultura rinascimentale e più particolarmente Toscana.

Passati quei giorni il Nonno che non era per niente un essere urbano non poteva più aspettare e tutta la famiglia prendeva il trenino fino a Porretta Terme e per finire, l’autobus fino a Taviano.

Mi ricordo che quando si arrivava a Pavana vedevo un largo sorriso sul viso del nonno come se ritrovasse la sua gioventù che la guerra e le turpitudine della vita ci aveva tolto troppo presto.

Quanti ricordi

I miei ricordi di Taviano sono tanti, senza cronologia precisa, ma più di tutto l’aria era differente per un ragazzo venuto del Mediterraneo. L’aria mi pareva più leggera con un profumo di abeti e castagni.

Il rumore del fiume Limentra onnipresente in questa valle faceva la sua musica che non mi sono ancora dimenticato 60 anni dopo.  Per andare al mulino si attraversava il ponte e ogni volta che passavo mi chinavo per dare un saluto all’acqua che correva sotto, oppure per assicurarmi che c’era ancora. Quante pescate si faceva lungo alle rive tranquilli sotto qualche albero che ci faceva una luce dolce e amichevole.

Ogni giorno c’era un rituale quasi religioso, andare prendere l’acqua alla sorgente del Catinino. In piedi si percorreva la strada fino alla casa cantoniera (che mi pareva strana col suo colore rosso vino perche in Francia non esistevano queste case) arrivati al Pian de l’opera, altro nome strano per me perché la sola opera che conoscevo era stata composta da Verdi o Puccini come me lo aveva insegnato il nonno. Ma non cercavo troppo di capire le origini delle cose ma piuttosto di assorbire golosamente queste ricchezze sensoriali. Si scendeva verso il fiume che si attraversava facendo piccoli passi saltando d’un sasso ad un altro per raggiungere l’altra riva dove la sorgente dalle virtù curative ci permetteva di prendere il suo prezioso e desiderato liquido. Fiaschi e bottiglie piene, tutta la gioiosa truppa tornava a Taviano ridendo e chiacchierando per delle cose leggere come era il cielo in questi tempi d’estate. Talvolta ci sogno ancora e mi domando se questa sorgente c’è ancora e se bambini vanno ancora fargli una visitina ogni giorno sotto il sole della mia cara valle.

Il mulino

La famiglia di mia nonna Vittoria aveva la proprietà del mulino da generazioni. Lo zio Alfeo, che era di fatti un cugino del mio babbo dalle parti dei Giagnoni (ma tutti erano zie o zii) aveva trasformato il canale che portava l’acqua al mulino in un allevamento di trote e questo spettacolo di centinaia di pesci, dai più piccoli ai più grossi, mi affascinava perché quando ero a casa mia col babbo si andava spesso pescare nel nostro caro mare mediterraneo.

Alle origini il mulino faceva della farina di castagne e la tradizione di famiglia non l’avevamo persa. La nonna o la zia Pia sua sorella, immigrata con lei, ci cucinava spesso immensi castagnacci o necci in forno ma quelli che si mangiava a Taviano non avevano lo stesso sapore; sentivo bene che ero proprio al centro della faccenda. Forse l’aria anche qui ci stava per qualcosa.

In questa casa mulinera ci stava un personaggio inevitabile, il fratello della nonna, lo zio Ferruccio con la sua eterna pipa in bocca e sempre una parola per tutti, ma quando dico una parola non dico due, perché tra le parole tirava su la pipa facendo apparire una nebbia tabaccaia che si perdeva dentro i suoi baffi ingialliti per il fumare. Me lo ricordo come se era qui con me in un cantuccio guardandomi scrivere.

I giochi con gli amici

In quel villaggio i bambini si ritrovavano per giocare e il mio amico era Maurizio Ferrari. La sua famiglia stava di fronte al mulino e mi ricordo anche della sua sorella Luciana e dei suoi genitori. Mi avevano accolto con una gentilezza immensa che mi ha subito fatto sentire al mio posto tra di loro. Sempre ho pensato a loro e a questi giorni felici. La sera si andava tutti bambini da una signorina, che mi sono dimenticato il nome, per giocare alle carte. Quante partite a scopa o briscola si faceva. Mi ricordo che il mio italiano era ancora approssimativo. Mi riprendeva sempre, quando dicevo “tocca a io”, lei mi stava correggendo “Henri! Tocca a me”.

Le partite alle carte erano un importante collegamento sociale. Giovani, anziani giocavano delle partite arrabbiate. Nel pomeriggio il nonno e alcuni amici si ritrovavano da Alfredo, un piccolo caffè molto scuro che mi pareva fuori tempo come se l’orologio si era fermato lasciando entrare solo qualche iniziato che possedeva una certificazione la cui parola d’ordine era: amicizia. Si trovava sulla parte sinistra della strada che attraversa il villaggio scendendo verso il Municipio. Quando si passava davanti per andare al campo sportivo si sentiva gridare i giocatori molti impegnati a vincere, come se la loro vita ne dipendesse.

Il campo sportivo

Per andare al campo sportivo si passava per Taviano vecchio dove ci sta la casa dei Barbi.  Casa dove i miei antenati vissero e dove nacque mio nonno. Il passare davanti faceva nascere la coscienza illusoria che tutto era partito di questa piccola e modesta casa. Il punto zero della famiglia. Adesso ancora questa casetta occupa un posto speciale nel mio pantheon e spesso la mia immaginazione parte in questo luogo cercando delle risposte alla mia propria storia.

A quel punto devo dire che come sempre la vita di un figlio di migrante era diciamo speciale. In Francia eravamo considerati come italiani e in Italia come francesi. Per un ragazzo di dieci anni non era semplice costruirsi ma questa doppia cultura mi apriva delle porte che gli altri bambini non sospettavano ma che non sospettavo neanch’io in quei momenti.

Il campo sportivo era lungo il fiume un po’ fuori del villaggio. I “villeggianti” avevano la loro squadra e le partite erano appassionate davanti tifosi che non lo erano meno. Era la prima volta che scoprivo delle magliette italiane.

Si giocava anche partite sulla tavola con delle capsule di birra dipinte ai colori delle squadre del mondiale, spinte con un movimento del indice e del pollice. I portieri erano fatti con una molletta. A questo gioco Fabrizio mi vinceva sempre.

Il bar e la chiesa

La sera si andava da Mariano, il bar numero uno di Taviano! C’era anche la TV dove si vedeva delle pubblicità nello storico carosello col mondo di arcobaleno. Ma più di tutto si andava a comprare gelati e il mio preferito era quello di pana tra due biscotti. Penso che la mia passione per i gelati viene a prendere la sua origine in quel posto preciso!

La chiesa di San Antonio era anche uno dei centri forti che ritmava la vita del villaggio.  Il suo prete era un uomo molto buono che tutti amavano immensamente: Don Matteo.

Non ho più mai incontrato una persona dedicata al sacerdozio come lui. A questo punto devo dire che la cosa religiosa in Francia non faceva parte delle mie preoccupazioni. Don Matteo fu la rivelazione del mio interesse nello studio dei Vangeli e non lo ringrazierò mai abbastanza per avermi aperto questa finestra spiriruale.

Per ferragosto si andava per le case chiedere delle fascine per fare il falo’ sulla piazzetta davanti alla chiesa. Il paganesimo si fondeva allora con la fede e la speranza in giorni felici. Questo fuoco di gioia mi avvicinava alla fine delle vacanze e al ritorno in Francia. Ho ancora in mente la luce delle fiamme che faceva muoversi le ombre e questo incredibile fervore di tutti condividendo questa tradizione uscita dal fondo dei secoli.

La Divina commedia e Michele Barbi

Quando ero alla Scuola Normale, in corso d’Italiano, il mio libro preferito era la Divina Commedia e posso dire che anche oggi occupa un posto preferito nella mia biblioteca. Molti anni dopo facendo ricerche sui miei antenati, mi sono trovato di fronte a Michele Barbi filologo e specialista delle opere dantesche. Certe volte nella vita ci sono incontri incredibili che diventano rivelazioni. Per me è stato come se un filo della mia vita rotto nel partire dall’Italia di mio nonno Francesco si era riparato mettendo un po’ di luce e di profondità sulle mie origini. Da questo momento la mia passione per Dante mi e apparsa come strana, evidente e rassicurante.

La strada di Sambuca

Per andare alla Sambuca non c’era la strada ma un piccolo sentiero che saliva fino al convento. Per fornirli in ogni cosa c’era un cavallo che partiva dal mulino accompagnato da un uomo che non mi ricordo il nome ma che ho ancora in mente. Per me andare fino alla Sambuca mi pareva una cosa impossibile, come se si trattasse di vincere l’Himalaya. Il mio nonno mi diceva che passata la Sambuca c’erano paesi ancora più lontani, le Casette, Casale tutto un mondo di fantasia si apriva e come avevo delle disposizioni al sogno occhi aperti, m’immaginavo tutta una favolosa vita all’insù  ben che mi chiedevo come si potesse vivere così lontano di tutto. Quando tornai al villaggio avevo 18 anni e la strada permetteva di raggiungere il Convento con la macchina. Non ci sono andato per non demistificare i miei sogni di bambino e mantenere in mente questo posto tra nebbia e monti inaccessibili.

Il triste ritorno

Arrivati negli ultimi giorni d’agosto bisognava prendere la via del ritorno lasciando dietro di me Taviano, il fiume, il mulino e tanti amici. Si passava a Bellavalle salutare lo zio Olinto e sua famiglia. Un uomo tanto buono che diceva spesso sua parolaccia preferita: Porca patata doppia!  e mi faceva ridere quando lo sentivo. Mi ci vorrà qualche anno per capire che significavano queste esclamazioni.

Arrivato al passo della collina il libro delle vacanze si fermava e si stringeva il cuore. Firenze arrivava presto con le sue scoperte meravigliose per due o tre giorni. Poi, il treno. Pistoia, Pisa, il mare, Genova, ritrovavo paesaggi familiari e la progressività del viaggio mi lasciava le idee vagabondare.

Nizza, il binario, la mamma e il babbo e il ritorno a scuola di settembre.

Taviano non me lo sono mai dimenticato e sono pochi i giorni che non ho mai avuto un pensiero per questo periodo felicissimo di mia vita. Tante cose, personaggi, visi, ambienti presenti in me. Queste persone che mi hanno dato tanto in cosi pochi giorni. Il sogno delle storie di Taviano che mi contavano i nonni è diventato realtà permettendomi di capire da dove venivo e perché in me la mia parte italiana non si e mai spenta.

Forse queste montagne il cuore ce l’hanno più grande per potere dare più amore.

Le immagini del passato

 

 


La Redazione

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