Se le contingenze drammatiche di questi tempi insegnassero qualcosa e se la Storia restituisse senno a quell’armata sgangherata di “Smemorati di Collegno” che siamo diventati noi, popolo italico, ci accorgeremmo che aver abbandonato del tutto le nostre radici non è stata una bella trovata. E non lo dico perché io sia un malato di nostalgia e creda nelle favole del buon tempo antico, ma perché faccio un ragionamento fondato sull’unico totem che in questi ultimi 70 anni abbiamo adorato, cioè l’economia, peraltro nella sua versione più cialtrona e meno nobile.
Il tramonto di alcuni miti del nostro tempo
La Storia presenta sempre i conti e tutti i nodi vengono al pettine. Il Covid 19 e il conflitto in Ucraina hanno segnato il tramonto di un’era di certezze granitiche, e non solo dal punto di vista politico e geopolitico, ma anche e soprattutto socioeconomico. I miti della globalizzazione selvaggia, del metropolitanismo, del mercato al massimo ribasso, della dipendenza dall’estero, unitamente all’abbandono delle campagne, alla penalizzazione dell’agricoltura, al trionfo del terziario e della virtualità hanno messo a nudo tutta la nostra fragilità, prima occidentale, poi nazionale e infine locale.
Uno strano concetto di ecologia
A tutto questo si è aggiunta una diffusa ideologia ambientalista, radicata per lo più nelle metropoli, in base alla quale tutto deve essere rigorosamente preservato, prunai e animali di ogni tipo compresi, senza rendersi conto che tra ecosistema naturale e uomo deve esserci un rapporto di collaborazione e rispetto reciproci.
Si, perché l’urbanizzazione selvaggia delle città, ormai murate nel cemento e nell’asfalto, è quello il vero insulto alla dimensione naturale! Insomma ci si è prodigati a conservare totalmente intangibili i territori periurbani e quelli più periferici secondo le più radicali ideologie ecologiste e contemporaneamente si sono accettati sulle nostre tavole cibi di importazione, anche se conditi con glifosate ed altre spezie cancerogene.
Così le aree marginali sono state abbandonate, la vegetazione è avanzata in modo incontenibile (la Toscana è una delle regioni italiane a più elevato incremento boschivo, anche se in stato di pietosa incuria) e noi importiamo cereali, castagne e tanti altri beni di prima necessità da paesi molto meno ecologisti, lamentandoci peraltro dell’inquinamento prodotto dal trasporto su gomma.
Questo strabismo ambientale, cavalcato anche da politici e amministratori attentissimi al consenso piuttosto che al bene comune, conduce poco lontano, perché sono sufficienti crisi economiche, sanitarie o militari nei paesi da cui dipendiamo dal punto di vista alimentare o energetico che l’economia nazionale è già in ginocchio. E sono ormai più di 20 anni che l’instabilità e le crisi ripetute attanagliano questo nostro infelice pianeta!
L’insegnamento dei nostri avi montanini
E veniamo ai nostri territori marginali. Ovunque si volga lo sguardo, in collina, in montagna e per la verità anche in pianura, si vedono terrazzamenti, campi e perfino grandi appezzamenti, un tempo coltivati, sui quali insistono solo sterpaglie e rovi.
Se ricordassimo i racconti dei nostri nonni o se leggessimo qualche libro di storia un po’ obiettivo, immagini comprese, sapremmo che molti dei nostri borghi di collina e di montagna, nel corso del 1800 e nel primo Novecento erano autosufficienti dal punto di vista dell’alimentazione essenziale di uomini e di animali, perché intorno ai paesi si allevava e si coltivava intensamente su terreni strappati con fatica al bosco.
Le famiglie macinavano il proprio grano, conservavano nei cassoni la propria farina dolce e mangiavano ciò che fornivano i campi, i boschi e le stalle, tanto che era più facile che patissero la fame i cittadini piuttosto che la gente di montagna.
Si panificava in casa o nei forni comuni di paese e gli animali da allevamento si nutrivano con fieno e cereali locali, sicuramente non trattati e ogm free, come si dice oggi.
Poi c’è stata la fine di quel mondo e non si è stati capaci di elaborare una nuova filosofia di vita che presupponesse un nuovo equilibrio tra uomo e ambiente; così oggi ci troviamo di fronte a scelte difficili, ma che pure dovranno essere fatte.
Torneranno utili i terreni marginali?
Allora potranno tornare utili i nostri terreni marginali? Si potrà contare sull’incremento di una produzione di prossimità, a chilometro zero? Si capirà che non potremo dipendere in toto dall’estero e che dovremo riseminare i nostri grani antichi, compreso il marzolo, o le patate del Melo, tanto per fare qualche esempio? Ci renderemo conto che occorre un rinnovato ordine naturale, molto più equilibrato, che tuteli gli animali selvatici ma anche gli agricoltori e i pastori che sono ormai gli ultimi guardiani dei territori marginali?
Auguriamoci allora che il burocretinismo dei vincoli e dei balzelli astrusi lasci il posto ad una più ragionevole gestione territoriale basata sulla realtà effettuale e non su ideologie ambientali importate e virtuali e speriamo di rivedere nei nostri terreni abbandonati ondeggiare al vento le spighe oppure verdeggiare le piante di patate come si vedevano in un passato nemmeno troppo lontano.
Ma qualora ci fosse un risveglio dell’agricoltura di prossimità, siamo sicuri che nel frattempo non si siano perse le competenze basilari dei nostri progenitori?
Certezze ce ne sono poche; ciò che è sicuro è che bisogna modificare leggi e regolamenti che attualmente governano le aree marginali e quelle forestali.