Basta avventurarsi in montagna, in qualsiasi direzione o versante oppure a qualsiasi altitudine, che incontriamo le vestigia del nostro passato, sia che si tratti di boschi o castagneti, ormai lasciati all’abbandono, sia che si tratti di borghi o case sparse, oggi disabitati, lesionati dal tempo o addirittura completamente crollati.
A guardar bene sono tutte cellule dei nostri corpi e brandelli della nostra storia sociale e umana: roste, coronelle dei castagni, distrutte dai cinghiali, piante aliene (ma siamo diventati alieni anche noi!), vie storiche non più battute e spesso interrotte da intrichi di pruni e arbusti, quando non alberi caduti al suolo, e piccoli agglomerati di case un tempo pulsanti di vita.
Insomma il nostro ambiente ed il nostro territorio, curati da tanti “senza nome”, gente di cui la Storia, né la grande né la piccola, menzionerà mai, ma che ci ha trasmesso un patrimonio che noi abbiamo confinato nell’oblio.
Oblio o negazionismo?
E’ quello che emerge dalla lettura del bellissimo libro di Mirto Campi, intitolato proprio “I senza nome”, che è stato presentato domenica 24 Ottobre a Castello di Cireglio, in occasione della 7ª giornata europea dei Parchi Letterari.
Quanti “senza nome” hanno modellato la nostra Montagna e di quanti sacrifici, dolori, piccole gioie, tradizioni si è riempito nei secoli ogni angolo di essa?
Noi, così supponenti e ipocriti, l’abbiamo destinata all’oblio, abbiamo voltato gli occhi da un’altra parte, riservandole il ruolo di giostra o parco giochi per cittadini stressati e così ne abbiano perduto lo spirito, i grandi insegnamenti morali, come l’umiltà, o materiali, l’anima e persino la “voce” perché non sappiamo più interpretarne i silenzi, i fruscii o i suoni.
Ma c’è un’altra ipotesi, ancora peggiore, che fa parte di un approccio sempre meschino al passato, cioè il negazionismo, il voler nascondere sotto il tappeto le nostre radici, quasi vergognandoci di essere, in moltissimi di noi, figli, nipoti, eredi di gente semplice, contadina, anche rozza e ignorante, ma con un senso di appartenenza e rispetto delle proprie origini.
E c’è da augurarsi che non sia questo il motivo per cui abbiamo così emarginato la nostra montagna più povera, quella “meno griffata”, come dice qualcuno, perché sarebbe come rinnegare se stessi e confinarci davvero tra i “senza nome”, ma non tra quelli degni di stima di cui ha parlato Mirto Campi nel suo libro, bensì tra i “senza nome” e i “senza radici”, una specie destinata all’estinzione culturale e morale.