Scartabellare documenti antichi relativi alla nostra Montagna è molto interessante e vi si scoprono sempre notizie inattese o quantomeno curiose.
Intanto, se parliamo di agricoltura, era obbligatorio per gli abitanti di ogni borgo fare l’orto e vi si dovevano coltivare cavoli, porri, fave, ceci, orbiglie (specie di piselli selvatici); a chi si fosse introdotto proditoriamente negli orti e avesse rubato tali prodotti, venivano comminate pene severe (Statuto della Sambuca 1291-1340,rubriche 173,177,187).
Ma ciò che colpisce maggiormente è la presenza di vigne praticamente ovunque, anche ad altitudini oggi impensabili.
I luoghi dei vigneti
Sfogliando i Regesta Chartarum Pistoriensium del Monastero di San Salvatore a Fontana Taona – Sec. XIII si scopre che in molti luoghi del comprensorio di Sambuca si coltivavano le viti.
Tanto per fare qualche esempio, si rammentano vigneti a Treppio, Torri, Fossato, Cantagallo, a Sant’Ilario, a Badi, a Moscacchia, a Pavana, a Miraccula (Taviano) e perfino a Canal Fontese, oggi Case Mignani.
Ciò vuol dire che la vite, tra il XII e il XIII secolo, produceva anche ad altitudini ragguardevoli e nei contratti di vendita sono rammentate non solo le terrae vineate, cioè quelle dove la vite veniva coltivata in mezzo ad altre colture (cereali, prati, orti, castagneti ecc), ma anche le vinee, cioè le coltivazioni esclusivamente dedicate a questa coltura.
Come si spiega che oggi in quegli stessi luoghi la vite non prospera più? Quali varietà di vite in quel tempo si potevano coltivare? E quali erano gli usi dell’uva raccolta?
Tante domande e qualche risposta
La scienza ci dice che dal IX fino al XV secolo il clima europeo è stato un po’ più caldo, tanto che anche in Inghilterra si coltivavano le viti, tuttavia è difficile pensare che a Torri, Treppio, a Taviano l’uva maturasse completamente e se ne facesse un buon vino.
E questo è rafforzato dal fatto che oggi quasi solo l’uva fragola, introdotta dall’America nel 1800 per la diffusione della fillossera nelle varietà europee, alligna in quelle nostre terre alte.
A meno che non si coltivassero vitigni particolarmente adatti ai climi più rigidi, magari vitigni di tradizione antichissima, addirittura preromana, come la Vite barbarica silva, risalente al tempo in cui i Liguri avevano occupato il nostro Appennino, oppure la Vite Allobrogica, di origine celtica, entrambe particolarmente resistenti al freddo.
Gli usi del mosto
Dopo lo sgretolamento dell’Impero romano il vino riacquistò impulso col Cristianesimo per il valore sacrale che questa bevanda aveva acquisito.
Così nel Basso Medioevo tornò a diffondersi in modo massiccio la coltivazione della vite e vennero recuperati anche altri impieghi del vino, ad esempio quelli ad uso terapeutico per uomini e animali, che già la grande tradizione culturale romana aveva usato.
In questa nuova logica i monasteri si proposero come centri di promozione delle pratiche vitivinicole e ad essi si deve ascrivere il merito di aver recuperato antiche varietà di vite che altrimenti sarebbero andate perdute.
Ma per la nostra Montagna non si deve pensare a produzioni di vini pregiati.
A tal proposito è ancora il già citato Statuto della Sambuca a fornirci alcune informazioni interessanti; alla rubrica 174 vengono elencati tre tipi di vino: il vino brusco (aspro), il vino maturo e quello cotto.
Inoltre poco più avanti, alla rubrica 187 si intima a chiunque di non introdursi fraudolentemente nei vigneti, sia quando le uve fossero mature, sia quando esse fossero già buone per l’agresto.
Allora è evidente che l’uva non matura avesse un utilizzo gastronomico, perché l’agresto era, ed è ancora, un condimento ottenuto con la cottura o la fermentazione del mosto di uva acerba, con l’aggiunta di aceto, cipolla, aglio o altre essenze.
Questo tipo di condimento, tanto comune in passato in Emilia e in Toscana, oggi è stato largamente sostituito dalla salsa di pomodoro.
Un vino molto aspro
Pertanto a Treppio, Torri, Taviano e altrove è lecito supporre che il vinello che si produceva fosse assai aspro, che di vino maturo se ne ricavasse poco, che le tante uve che non raggiungevano la maturazione fossero impiegate per l’agresto, che si cuocesse il mosto per realizzare bevande o ingredienti che accompagnassero la cottura di carne o verdure e che, infine, la presenza della componente alcoolica ne consentisse svariati impieghi terapeutici e antisettici.
Tutto ciò non sminuisce affatto il valore che allora si dava alle terrae vineate o alle vinee e a ciò che se ne ricavava,anzi esse erano considerate beni assai preziosi se è vero che anche Martino, il Vescovo di Pistoia (1043-1057) per salvarsi l’anima volle lasciare in eredità al Monastero di Fontana a Taona le sue vigne, i suoi numerosi possedimenti e ogni decima di vino prodotto a Villa di Baggio.