L’età media di chi vive in Montagna non è più tanto verde, purtroppo, ed ogni necrologio affisso ad un muro è un’occasione per riflettere sulla perdita di qualche persona conosciuta o di un amico con cui si è condiviso una parte della vita.
Non è curiosità spicciola, semmai si potrebbe definire come una partecipazione pensosa che sopraggiunge quando si avvicina l’ultimo dei resoconti esistenziali. In parole povere, passati i sessantanni la presunzione tipicamente giovanile di immortalità lascia il posto alla coscienza della propria fragilità umana e dell’avvicinarsi del “giorno estremo”, come diceva un grande poeta, o del “falcione”, come sosteneva mio nonno di Pianosinatico.
Questo dal punto di vista individuale.
Società di massa e intercambiabilità degli individui
Dal punto di vista sociale le cose sono andate e vanno altrimenti.
Nella civiltà industriale il ruolo dell’individuo, inteso come entità creativa ed unica, si è andato progressivamente spegnendo perché hanno preso campo le mansioni ripetitive e con esse l’idea che in ambito lavorativo ognuno potesse essere sostituito in qualsiasi momento, senza che il processo produttivo ne risentisse in modo sostanziale.
Di pari passo si è andata formando la società di massa e di conseguenza sono nate le scienze che si occupano delle dinamiche dei grandi numeri, come la sociologia, la demografia e la statistica, tanto per fare qualche esempio.
Oggi, in quella che viene definita civiltà postindustriale, vige un sistema soffocante in cui la spersonalizzazione dell’individuo è, se vogliamo, ancora più palpabile.
Ovunque predominano la virtualità, lo specialismo esasperato in ogni campo, l’omologazione dei comportamenti, la dipendenza dai mass media, dal Web, dai social e da molto altro e infine una cultura “metropolitana” che ha ignorato, e continua a farlo, la specificità delle aree periferiche, della Montagna e di coloro che ci vivono.
Chi vive in montagna è insostituibile
Insomma, per non farla troppo lunga, coloro che ostinatamente sono vissuti e continuano a vivere lontano dalle sirene metropolitane, rappresentano degli oracoli viventi di quei luoghi, ne conoscono ogni spanna, ogni tradizione culturale, ogni retaggio del passato, ogni segreto ed ogni necessità.
Il fatto è che sono inascoltati.
Allora, quando se ne va un “custode” di questi microcosmi che ha vissuto l’intera esistenza quassù, in un borgo sperduto tra i monti o in una campagna desolata, alla tristezza che si prova per la scomparsa di un uomo, e di ogni uomo, si aggiunge un senso di vuoto incolmabile, perché nessun libro, nessun sito internet, nessun tecnocrate o burocrate potranno mai sostituire il bagaglio di competenze e conoscenze o la sintonia con lo spirito del luogo che quella persona ha maturato nel corso di un’esistenza.
E, per di più, rischia di andar perduta anche la testimonianza, direi, “filosofica” di chi ha impostato la propria vita sul sacrificio quotidiano, sull’anticonformismo e sull’attaccamento viscerale alla terra dei padri.