“Il problema è in parte l’effetto di un istinto primordiale declinato ai nostri tempi, con una società profondamente mutata rispetto al passato: i centri urbani che attraggono sempre più persone e le aree montane che si vanno inesorabilmente spopolando. Un fenomeno che esiste da sempre ma che con il tempo si è fortemente accentuato. Chi vive in città ha a volte una lettura distorta della montagna, vuole trovare sui monti un ambiente antitetico a quello in cui vive quotidianamente”.
Le prime parole di Francesco Benesperi, dottore forestale, responsabile dell‘Area Forestazione dell’Unione dei Comuni dell’Appennino Pistoiese, sono quasi un’introduzione alla nostra intervista. Il tema, manco a dirlo, è quello della raccolta di funghi e del fenomeno – ormai ciclico – dell'”assalto” alla montagna, in alcuni periodi dell’anno, con polemiche e scontri conseguenti. Negli ultimi giorni si è assistito ad un via vai di auto impressionante, nelle primissime ore della mattina, con tanti “ricercatori” scatenati nei boschi. L’esito di questa ricerca è, troppo spesso, una raccolta eccessiva, danni al sottobosco e un corollario di comportamenti scorretti. I controlli hanno prodotto diverse sanzioni, la più clamorosa delle quali è stata una multa da 980 euro, comminata ad un livornese, a conferma che per i funghi si fa anche molta strada (non solo a piedi).
Di questo, ma anche di molto altro, abbiamo parlato con Benesperi. Ecco il resoconto della nostra intervista.
Benesperi, lo scontro fra residenti in montagna e cercatori di funghi che vengono dalla città, comunque dalla pianura, sembra non conoscere pause. Se ne può uscire in qualche modo?
“Esiste una diffidenza reciproca. Il cercatore che viene da fuori è spesso visto come colui che sottrae un prodotto; c’è anche una memoria collettiva alla base di questa considerazione e questo elemento amplifica il ‘conflitto’. Del resto, spesso nella moltitudine che cerca funghi e proviene dalla città ci sono abitudini sbagliate, una scarsa cultura del bosco, delle regole ecc. Siccome questa risorsa, oggi specialmente nella parte alta della montagna, Abetone, Val Sestaione, è spontanea e tanta, si pensa che sia un prodotto per tutti, in quantità infinite”.
Ovviamente non è così. Spesso chi frequenta il bosco, soprattutto o esclusivamente alla ricerca dei funghi, è a corto di nozioni, a volte anche minime. Per non dire di comportamenti scorretti, aggressivi nei confronti dell’ambiente. Quanto potrebbe aiutare una corretta informazione?
“L’idea che lo spazio boscato sia uno spazio collettivo, a disposizione di tutti, è un concetto fondato su un dato sbagliato di fondo, sull’ignoranza di come funzionano le cose. Ci sono aree forestali che lo Stato e le Regioni rendono fruibili con norme e regolamenti ma la maggior parte del bosco è di proprietà privata. Sono aree frazionate in diverse proprietà”.
Insomma esiste un’opinione sbagliata che il bosco è di tutti, un grande spazio pubblico fruibile da chiunque?
“Sì, in molti pensano questo. Non c’è sempre consapevolezza che ci si muove in terreni privati e che, quindi, si è ospiti”.
E’ ovunque così?
“In Alta Lucchesia, tanto per non andare molto lontano, permangono aree boscate e terreni agricoli destinati ad uso civico che sulla nostra montagna non esistono più. Le norme granducali di epoca leopoldina infatti tesero ad eliminare gli usi civici dei terreni favorendo la formazione della proprietà privata e questo nel tempo ha determinato sul nostro territorio una forte frammentazione fondiaria. Da altre parti è un po’ diverso”.
In zone di confine come l’Emilia la situazione semrba diversa. E’ così?
“Il confronto è più complesso perché in Emilia le aree appenniniche con particolari tutele sono tante e molto vaste, si tratta di veri e propri parchi. Quando anche si ha accesso per la raccolta, penso per esempio ai mirtilli, le norme sono molto stringenti e consentono un forte protezionismo. Anche per quanto riguarda i funghi, l’approccio complessivo è diverso”.
C’è poi un altro fenomeno che accentua il problema. Non pochi cercatori di funghi sono mossi anche da un interesse economico. I funghi li vendono. E, spesso, senza averne i requisiti.
“Beh direi che c’è chi ha i requisiti per la vendita, e che quindi lo fa in modo corretto, ma la maggior parte dei raccoglitori non è in queste condizioni”.
Al di là di politiche a lungo termine, quale potrebbe essere una soluzione più immediata per regolare la raccolta dei funghi?
“Mi è sembrata interessante l’idea della quale ha parlato alcuni giorni fa Giuseppe Corsini (imprenditore, titolare dell’azienda agricola Le Roncacce), che auspicava la costituzione di aree di raccolta riservata ai sensi delle vigenti normative regionali da parte di aggregazione di aziende del territorio, che possano gestire e controllare anche questo fenomeno, mirando al contempo ad ottenere maggiori introiti. La soluzione non si può certo trovare nell’aumento del costo del tesserino per i raccoglitori”.
Veniamo al ruolo della Regione. Sia sull’informzione sia sulla gestione complessiva di questo fenomeno l’ente centrale potrebbe fare di più, non crede?
“Sull’informazione si può sicuramente fare di più ma alcune cose sono state fatte. Non avendo finanziamenti specifici, l’Unione dei Comuni quale Ente Competente in materia forestale svolge un ruolo mediano fra Regione e territorio, ma senza risorse dirette e competenze specifiche di legge si può fare poco di più. Anche quando vengono applicate sanzioni pecuniarie a chi non rispetta le regole, siano i Carabinieri forestali o siano i nostri operatori a farlo, i proventi sono comunque appannaggio della Regione Toscana. E’ quest’ultima che può casomai ridestinare queste risorse allo stesso settore, penso per esempio a corsi di micologia e altre iniziative che sul nostro territorio negli ultimi anni sono state portate avanti soprattutto con l’Ecomuseo e soprattutto nel periodo estivo”.
Proviamo ad allargare il discorso. I boschi presi d’assalto dai ricercatori dei prodotti del sottobosco sono stati abbandonati. La mancanza di interventi mirati, di una vera manutenzione può esserne una causa indiretta?
“Con gli anni è sempre più venuta meno l’area di transizione fra fascia agricola e boscata, un tempo ricca di biodiversità. Certo anche la minor cura, la riduzione dei tagli boschivi hanno compromesso la biodiversità, penso soprattutto ai molti castagneti da frutto abbandonati”.
A proposito di taglio dei boschi vogliamo provare a spiegare in sintesi come funziona?
“E’ legato alla redditività sia dei proprietari dei terreni sia delle aziende agricole. Da noi si è ridotto drasticamente il tessuto agro-silvo-pastorale, l’economia che si basava su quel modello è crollata. Di conseguenza anche il taglio dei boschi si è ridotto, il piccolo appezzamento boschivo non è stato più curato con le conseguenza che dicevamo prima”.
Poca redditività quindi difficoltà ad individuare i soggetti che lavorano con il bosco. Che nel frattempo si popola di piante infestanti e appare sempre più difficile da frequentare?
“Per chi taglia il bosco il margine di guadagno è spesso minimo. Più piccole sono le proprietà meno valore hanno. Un tempo il bisogno di legna e carbone era tanto e tanti i suoi utilizzi, dal legname da opera alla fascina sino ai diversi sottoprodotti. Per molto tempo lo Stato ha avuto un atteggiamento di solo controllo e non propositivo, affidando la gestione al Corpo forestale, che l’ha messa in pratica con gli strumenti che aveva”.
Ci sono poi anche limiti specifici delle aziende che lavorano nel settore. E’ così?
“Esiste un limite strutturale delle imprese, che sono di dimensioni medio piccole. Il tentativo che si sta facendo oggi è cercare di dare risposte di sistema e andare verso la costituzione di ‘comunità del bosco’, nelle quali, sia chiaro, il fungo è solo un elemento fra i tanti. E’ necessaria una ricostituzione del tessuto sociale ed economico che non può essere una riproposizione tout court di vecchi modelli”.
Quale ruolo può svolere la Regione Toscana su questo terreno?
“La Toscana è la regione con uno dei più estesi patrimoni boschivi d’Italia. Ci sono ampi margini di intervento anche se il problema è il Paese nel suo complesso, nel quadro di una politica forestale nazionale in evoluzione ma finora assente”.
E il panorama internazionale?
“L’Italia è uno dei principali importatori di legna da ardere e semilavorati da altri Paesi. Sembra un paradosso ma è così. Il legno da lavoro arriva soprattutto da Paesi del Nord Europa, ma anche da Africa ed Asia, che con il legno hanno saputo attuare grandi economie di scala, mentre grandi quantità di legna da ardere, anche trasformato in cippato o pellet, giungono dall’Europa orientale”.