Il rabdomante nell’antichità
Fin dall’antichità più remota si era intuito che l’acqua e ogni metallo prezioso emettessero radiazioni e che ci fossero persone capaci di intercettare queste radiazioni essendo dotate di una particolare sensibilità. Gli Egizi, i Cinesi, gli Etruschi e i Romani esercitarono l’arte della Rabdomanzia, termine greco che alla lettera significa proprio “divinazione, interpretazione per mezzo di un bastone, di una verga”. E, in effetti, gli strumenti del rabdomante sono essenziali e semplicissimi: bastano due bacchette di legno e poco altro, ma soprattutto occorre una “dote” naturale che hanno in pochi, anzi pochissimi, tanto che per secoli, specialmente nel Medioevo, i rabbdomanti erano ritenuti simili agli stregoni e quindi guardati con molto sospetto.
La scientificità della rodioestesia
Ma già all’inizio del 1800 uno studioso italiano, Carlo Amoretti, aveva posto le basi scientifiche di quella che nel 1919 l’abate francese Bouly avrebbe poi chiamato anche Radioestesia. Di nuovo c’è che il Governo tedesco ha finanziato, all’inizio di questo nostro secolo, un progetto di cui hanno fatto parte alcuni ricercatori e che si è concluso con una pubblicazione sulla verità scientifica della rodioestesia. Però, come spesso accade, le prove scientifiche avvengono solo dopo che un fatto, una situazione, sono confermati dalla prassi quotidiana.
Il dono di Mariano
Alcune persone, dunque, hanno il “dono” completamente naturale di captare queste forze invisibili, senza essersi dedicate a studi particolari. Una di queste è Mariano Dolfi, che abita a Castel di Piazza, nella nostra collina pistoiese. Ci si aspetterebbe di incontrare un uomo dai superpoteri, compreso nella sua rara dote, invece ci troviamo di fronte ad una persona semplice, immediata, disponibile e simpatica, che ha voglia di parlare del suo essere rabdomante.
Subito mi conduce nel suo magazzino-laboratorio, pieno di attrezzi da lavoro. Resto un po’ deluso quando da uno scaffale prende due bacchette di olivo e un vecchio orologio, usato come pendolo. Questi sono i suoi strumenti per individuare le falde sotterranee.
L’intervista
Mariano, resto stupito dalla semplicità della tua strumentazione!
“Infatti serve davvero poco. La forcina è fatta con due rametti di legno, legati ad un’estremità con una fettuccia. Io preferisco il legno d’olivo, che è sufficientemente elastico e non si rompe quando viene sollecitato. Si cammina sul campo di ricerca tenendo le due bacchette con i palmi delle mani rivolte in alto e orizzontali al terreno. Quando si passa sopra una falda ecco che la forcina si alza improvvisamente, sollecitata dalla forza dell’acqua che scorre sotto i nostri piedi. A questo punto occorre valutare la direzione della vena e qui entra in funzione il pendolo. Mettendoci al centro della falda, con lo strumento impugnato tra il pollice e l’indice, ecco che questo inizierà ad oscillare. Dai suoi movimenti si intuirà la direzione della vena. Sempre dalle sue oscillazioni sarà possibile capire se la portata è poca o tanta, anche se la quantità precisa non è possibile stabilirla. Ci vorrebbe un mago, ma io non lo sono”.
Gli strumenti del mestiere: la forcina e il pendolo
Da quanti anni pratichi questa tua, diciamo, arte?
“Sono ormai quarant’anni”.
Come hai scoperto questo dono?
“Ero piccolo, quando un giorno venne a desinare a casa nostra un parente di mio padre che faceva il rabdomante. Quando seppi che aveva la capacità di trovare le acque sotterranee, fui molto incuriosito e chiesi a quell’uomo, che si chiamava Peppe, di portarmi fuori e di darmi una dimostrazione pratica. Non ebbi pace fino a che non si fu nei campi. Con gli occhi sgranati e senza batter ciglio, guardavo tutti i movimenti di Peppe e non toglievo lo sguardo dalla forcella di legno che teneva tra le mani. Ad un tratto la forcella cominciò ad alzarsi fino a toccargli il petto. Aveva trovato l’acqua. A questo punto gli chiesi se potevo provare anch’io. Impugnai la forcella e mi avviai verso il punto in cui Peppe aveva individuato la vena. Quando ci fui sopra, una tempia mi cominciò a martellare da far paura e la forcina si alzò all’improvviso, tanto che non riuscivo a tenerla. Scoprii così di avere questo dono. Il pendolo me lo regalò mio padre: era l’orologio a catena di mio nonno Gigi, che conservo ancora gelosamente. Gli ho tolto la catena e l’ho sostituita con un cordoncino rosso”.
Ma in quanti posseggono questo dono ?
“Molti più di quanto si possa credere, perché alcuni ce l’hanno ma non sanno di averlo. Per esempio, durante una gita parrocchiale a cui ho preso parte, alcuni ragazzini della Parrocchia dell’Immacolata di Pistoia, dimostrarono di avere questo dote naturale, ma poi ho saputo che non l’hanno più coltivata”.
Secondo la tua lunga esperienza, quanta acqua scorre sotto di noi nella nostra montagna?
“La nostra montagna è ricchissima di vene sotterranee e non ci sarebbe bisogno di captare l’acqua dalla diga di Bilancino a Firenze. Qualche anno fa ho fatto una proposta a Publiacqua per usare l’eccedenza d’acqua dei pozzi privati a fini pubblici, ma non ho avuto risposta”.
Qual è la portata media di un pozzo, qui da noi?
“La portata varia molto. Ci sono pozzi da 20-25 litri di acqua al minuto ed altri che raggiungono i 500 litri al minuto, anche se in questi ultimi anni la portata dei pozzi è calata a causa della diminuzione delle precipitazioni”.
Ti ricordi la tua prima scoperta di rilievo?
“E’ stata negli anni Ottanta, quando Aldo, un mio amico di lavoro volle provare la mia dote su un terreno che aveva acquistato da poco tempo. Fu un successo, perché trovammo subito l’acqua (una ventina di litri al minuto). Da allora ho annotato tutti i luoghi dove mi hanno chiamato, scrivendo su un quaderno nominativi, luoghi, profondità e infine litri al minuto dei pozzi artesiani scoperti”.
Quanto costa al metro trivellare un pozzo?
“Da 100 a 140 euro al metro”.
Ma ritorniamo alle tue avventure. Le tue scoperte sono circoscritte solo al nostro territorio o hai avuto esperienze anche altrove?
“Mi hanno chiamato da molte parti, anche all’Isola d’Elba e una volta in Corsica”.
Quanti rabdomanti sono rimasti nella nostra provincia?
“Che io sappia siamo solo in due o tre”.
Quindi, tra qualche anno , non ci saranno più rabdomanti a Pistoia?
“Se andiamo avanti così penso di no. Io sto portando avanti un’iniziativa in collaborazione con alcune scuole pistoiesi. Vorrei trasmettere il mio sapere, facendo pratica insieme agli alunni; ma fino ad ora non ho trovato alcun allievo disposto a seguire il mio percorso”.
Hai raccolto in un libro le tue esperienze di rabdomante
“Si. Il libro si intitola ‘Il maestro delle acque’, perché così mi ha definito Tiziano Terzani, quando sono andato a cercar l’acqua in uno dei suoi terreni all’Orsigna. Mi è piaciuta la definizione e l’ho riportata fedelmente. Il libro appartiene alla serie ‘Quaderni degli amici di Piazza’ e la prefazione è dello scrittore Mauro Corona”.
Però questa non è la tua unica pubblicazione
“Appartiene alla stessa serie anche una raccolta di poesie in ottava rima, che ho intitolato ‘In punta di penna’. Questa passione l’ho coltivata negli ultimi dieci anni, ma in realtà viene da molto lontano, da quando, negli anno 50-60 ero affascinato dal Leoni e dall’Andreini, che vendevano lamette in Piazza del Leoncino a Pistoia e facevano gente cantando in ottava rima. Inoltre sono stato un ammiratore di Remo Cerini, un poeta da strada che i meno giovani ricordano girovagare per Pistoia insieme alla moglie”.
Insomma, un uomo pieno di risorse
“Sono un autodidatta, perché ho solo la quinta elementare, però sono orgoglioso di essermi fatto da solo, in un mondo di ‘colti’ che non vedono di buon occhio gli autodidatti come me”.