Che la lingua sia il termometro dei tempi, ormai è noto; e se i tempi sono bui (Dante li avrebbe definiti “le etadi grosse”) anche il vocabolario si rabbuia o, meglio, si adegua.
Un esempio è la parola amore , la più gentile che esista. Essa ha subito attraverso il tempo molte trasformazioni ed ha acquisito sfumature diverse, dalle più alle meno nobili.
Stessa sorte hanno avuto le locuzioni che contemplano la presenza di questo nostro termine.
Quando, ad esempio, i nostri nonni dicevano fare all’amore intendevano qualcosa di diverso da ciò a cui immediatamente pensiamo noi, oggi. Si poteva fare all’amore con una casa, con un pezzo di cacio, con una selva, con un’opera d’arte, nel senso che quel bene si desiderava o destava un interesse davvero particolare.
Naturalmente ciò valeva anche per i rapporti interpersonali.
Ma fare all’amore con una ragazza o con un bel giovane significava innanzi tutto essere attratto da qualcuno/a, dedicargli il cuore e la mente, soggiacendo anche alle rigide consuetudini familiari e sociali che spesso consentivano solo frequentazioni sporadiche e “sorvegliate”. Mi viene in mente un detto popolare che mio nonno rammentava sempre quando sentiva pronunciare la parola “amore”.
Lui diceva: “Amore, spicchio d’aglio, quando vi vedo mi travaglio”. E per “Amore” intendeva questo, cioè il travaglio interiore, il trasporto spirituale per qualcuno, che imponevano rispetto e onestà reciproci.
L’atto fisico faceva parte del poi, del dopo.
Oggi, invece, far l’amore ha un significato univoco, molto meno poetico e fascinoso, che spesso non prevede alcun tipo di coinvolgimento profondo, se non quello carnale, tanto che far l’amore e far sesso sono diventati sinonimi, con buona pace dello Stilnovismo, dell’Epopea cortese e della grande tradizione romantica. Del resto è giusto che all’homo erectus segua l’homo supinus !!!