Il piccolo mondo antico di Divino
Questo articolo è dedicato a Divino Biffoni, deceduto pochi giorni fa all’età di 83 anni, un uomo che ha incarnato il prototipo perfetto del montanino di altri tempi. Con lui abbiamo perduto inesorabilmente un altro pezzo della nostra montagna. Era rimasto l’unico residente di Campeda Nuova, un paesino sperduto nel Comune di Sambuca pistoiese. Pensare a lui mi fa venire subito in mente un ornello o un carpino, alberi che sopravvivono anche in luoghi inospitali, magari abbarbicati ad una roccia o ad un balzo, ma che stanno lì a dispetto del vento, della neve o della pioggia. Divino era così.
Fiero del suo piccolo mondo antico, senza il quale si sarebbe sentito un pesce fuor d’acqua, viveva da solo per buona parte dell’anno senza noia o nostalgia, perché trovava mille cose da fare e sapeva veramente fare di tutto, proprio come la maggior parte dei vecchi montanini che sapevano far le calze anche ai gatti, come si diceva un tempo. Se si andava a trovarlo in una bella giornata di sole, stava seduto nell’aia davanti casa, al caldo, come le lucertole, ma ti accoglieva con quella cortesia antica che solo la gente di montagna sa avere e ti parlava come se si rivolgesse ad un amico che non vede da anni.
Dopo un po’ ti accorgevi che Divino ti aveva fatto riscoprire un senso profondo di umanità che oggi è così raro e che forse abita solo in qualche angolo sperduto, come fino pochi giorni fa accadeva nel paesino di Campeda nuova.
Maurizio Ferrari
L’unico residente di Campeda Nuova
CAMPEDA NUOVA (SAMBUCA) – Chi arrivava in auto in Piazza (oltre non si va) avrebbe visto comparire su un uscio sulla sinistra un uomo richiamato dal rumore. Quest’uomo era Divino Biffoni, unico residente nel borgo di Campeda Nuova, ormai ricurvo dagli anni (83) e più ancora dalle fatiche. Antica famiglia i Biffoni, discendenti di quell’Annibale giunto a Campeda da Lùstrola, con moglie e cinque figli tutti maschi, nel 1793. I Biffoni si sono poi radicati in due rami diventando nel corso dell’800 proprietari di case e terreni.
Ma anche con l’arrivo del nuovo secolo la vita rimaneva, in Campeda come su gran parte del nostro Appennino, di pura sussistenza e certo in casa di Francesco, padre di Divino, non regnava l’abbondanza con sette figli da tirar su. La sorte comune di tutti i bambini era di iniziare a lavorare prestissimo, a quattro-cinque anni: cosa oggi impensabile ma che ha rappresentato la regola fino ai primi anni Cinquanta. Regola che imponeva quale mansione principale quella di badare alle pecore, prima in compagnia di un fratello o sorella maggiore poi, raggiunti i sette anni, in piena autonomia. Inoltre i bambini dovevano apprendere a far tutti i lavori di casa, dell’orto, dei campi, del bosco. Soprattutto diventare esperti nella raccolta delle castagne, la cui farina andava in tavola tutti i giorni.E per fortuna che c’era quella, che insieme alle bontà ricavate dal maiale, alle uova e al formaggio costituivano il nutrimento minimo indispensabile per affrontare giornate di lavoro che non finivano mai.
La scuola? Solo per leggere e scrivere
La scuola? Giusto per imparare a leggere e scrivere. A quattordici anni già Divino conduceva su e giù per questi versanti due muli, che andavano caricati e scaricati della soma ad ogni viaggio, oltreché convinti a rigar dritto con qualche bastonata al bisogno (se no come glielo spieghi ad un mulo quel che non deve fare?).
In giro per l’Italia
Ancor prima della leva militare, Divino lascia Campeda e raggiunge la sorella maggiore Ivonne che si era stabilita nel frattempo a Firenze. Girerà tutta l’Italia, Divino, facendo i mestieri più vari per poi specializzarsi come carpentiere ferraiolo, che “è un lavoro da star sempre in ginocchio”, a sottolineare perché da anni schiena e gambe non lo tenevano più su. Sarebbe poi tornato ad abitare a Campeda a metà degli anni Novanta e, come suol dirsi, di lì non si sarebbe più mosso se non per evitare i mesi invernali più rigidi.
Al giro di boa degli 80 anni
Giunto al giro di boa degli 80 anni, neanche l’inverno lo spaventava più e a nulla valevano le insistenze del nipote che lo avrebbe voluto con sé a Montecatini almeno nel periodo tra dicembre e febbraio, quando neve e più ancora smottamenti continui possono impedire di scendere e risalire con la fida Panda 4×4, interrompendo l’unica strada carrabile (e che strada!) che da Molino del Pallone porta a Campeda. Panda “che sta lì bòna bòna davanti all’uscio, non come i muli che ti guardan storto anche quando gli dai da mangiare” aggiungeva il buon Divino, ammiccando alla chiave della fidata quattroruote.
Oltre che autista provetto – col trattore, più il carro carico di bitume, è stato capace di percorrere la strada appena citata a marcia indietro! – Divino sapeva far tutto: passando dal ferro (fabbro esperto nonché saldatore) alla pietra, “un amore, quello per il sasso, nato – raccontava lui stesso – a soli cinque anni guardando uno scalpellino al lavoro mentre veniva costruita la fontana pubblica proprio lì sottoscasa dove sta tuttora”. Pochi anni fa ha saputo ricavare da due lastroni informi architrave e spalle per due sue finestre, il tutto scolpito ad arte col fido mazzòlo.
Una cantina piena di tutto
Hai bisogno di qualcosa? Nella cantina di Divino c’è il mondo: utensili di qualsiasi tipo, che ovviamente maneggiava solo lui “perché con gli attrezzi ci vuol garbo”, ma anche la vite e il chiodo della misura giusta, la guarnizione o la riparella altrimenti introvabili. Tutto questo perché Divino era cresciuto alla scuola del “tutto può tornar bòno” nell’epoca in cui non si buttava via niente, nemmeno la cenere di cui è grata ancor oggi la terra nera e fertile degli orti.
Sapeva anche di falegnameria, Divino e tra gli ultimi sfizi che si era tolto faceva bella mostra una vassora, ricavata da un pezzo unico di castagno. Non per niente aveva ereditato dal nonno materno il soprannome di “Maestraccio”, come talvolta veniva chiamato solo dai pochi suoi coetanei rimasti. “Va l’a dire ai giovani d’oggi al cl’è ‘na vassora” diceva scuotendo la testa, ben consapevole che il mondo che lo ha visto nascere è finito proprio in quegli stessi anni in cui i giovani come lui sono andati via da Campeda, come da buona parte di questi monti, in cerca di una vita migliore.
Cos’è la vassora
Per chi fosse curioso di sapere cos’è la vassora – in altre parti d’Appennino detta vassoia – la foto sopra è più che eloquente. Trattasi di un contenitore in legno che riempito di castagne secche già mondate veniva preso a due mani e appoggiato in vita. Qui veniva agitato di continuo finché l’attrito prodotto tra castagna e castagna faceva risalire in superficie la zanza residua. Operazione che rendeva sì la farina migliore (la zanza, o sansa, è la pellicina che avvolge le castagne, pellicina che diventa ancor più amara nella castagne secche) ma che allo stesso costituiva un lavoro massacrante, per giunta affidato di norma alle donne.