POSTA (RIETI) – A quasi due anni di distanza dal sisma, il Centro Italia si aggrappa alla forza e resistenza che le sue genti hanno sempre mostrato nelle quotidianità delle esistenze in salita.
Ora, però, è tutto molto diverso, più difficile. Questo osso di Italia che le carte geografiche chiamano Appennino è come ridotto a essere ancora più osso dai ripetuti scrolloni di un terremoto che lo ha scarnificato, maciullato nel profondo degli affetti e nelle cose più care.
Ripartono da ciò che resta quelle genti: ricominciano a riannodare i fili della vita vangando un campetto, trapiantando due pomodori in un vaso, andando a messa, organizzando dei mercatini, incontrandosi nei bar. Qualcuno, riparte e lo fa a modo suo: non dimenticando.
Non sarebbe giusto, così dicono.
Dalle case: una difficile ripartenza
Dalle case, e con le case, la ripartenza è più complicata. Sono abitate soltanto dai gesti ultimi, siano essi dei panni stesi, un letto disfatto, una giacca su una sedia, bicchieri sul tavolo di cucina, quello bello in noce massello.
La paura di nuove scosse, i ricordi pronti ad azzannarti appena vi entri, le assenze di chi non ce l’ha fatta e le burocrazie di uno Stato che sembra, nel suo immobilismo, sfiancare le resistenze di quei montanari sono salite quasi impossibili da vincere.
Eppure, c’è chi ci prova. E ci riesce. Sono pochi quelli che ce la fanno, bisogna scovarli tra le pieghe di questa Italia interna, insolcata tra i monti appenninici.
Nella foto, da sinistra: Mirto Campi, Federico Pagliai, Serenella Clarice e Maurizio Ferrari
Alessandro, un superstite del sisma
Alessandro è uno di questi. Lo abbiamo incontrato e conosciuto qualche giorno fa a Posta durante un incontro letterario organizzato dalla Sindaca Serenella Clarice e dal Comitato “Posta ti amo” e che ha avuto per ospiti oltre a me, Mirto Campi e Maurizio Ferrari.
Alessandro è un superstite del sisma. Lo è senza darlo troppo a vedere: è dignità anche questa. E’ un uomo all’antica, uno di quelli che, trovata una donna, se l’è presa in sposa venticinque anni fa e ci ha messo su famiglia.
A salvarla è stato il suo bimbo più piccolo, il destino in una puntata di febbre che dall’essere una fastidiosa scocciatura di una sera di agosto si è poi trasformata in una circostanza che ha consentito di proseguire la vita: ad altri, non è andata così.
Salvato dalla febbre del figlio
Ad Amatrice, perché è di lì che Alessandro proviene, aveva la casa natale. Era una palazzina di tre piani, una dozzina di metri di altezza, le pareti esterne a mattoncini rossi a faccia vista.
Quella sera del 23 agosto, Amatrice era vestita a festa. Il paese si era agghindato a dovere, con la sua forma a fuso tutta imbellettata e gremita di gente, emigranti al guinzaglio della nostalgia, villeggianti in fuga dal caldo estivo e residenti che si mettono il vestito bello, lo stesso da anni.
Anche Alessandro era lì. E ci sarebbe rimasto, lui e la sua famiglia, se il piccoletto non avesse avuto quella febbre, un mal di gola da nulla.
L’ultimo abbraccio con Cesare
Il bimbo era rimasto coi nonni materni a Posta, nella casa che Alessandro aveva acquistato e dove, dopo aver lasciato Amatrice, si era trasferito e lavorava; fa il falegname, uno che costruisce, quindi.
Per lui e tutta Amatrice era una notte di festa delle Sagre, in prossimità della Festa degli spaghetti all’amatriciana. Quella sera, in paese, c’era anche un amico che Alessandro non vedeva da anni. Si chiamava Cesare, i due si abbracciarono ma non fu un abbraccio di quelli dove due persone quasi rimbalzano l’ una contro l’altra. Passò, in quello stringersi, un qualcosa cui nessuno dette un commento parlato: fu un silenzioso tenersi, come quelli che anticipano una partenza.
Che fosse definitiva, e per chi, nessuno poteva immaginarselo.
Il ritorno a Posta
Erano le tre di notte quando Alessandro e famiglia decisero di tornarsene a Posta dal figlio con il mal di gola. Il tempo di rientrare, di indossare il pigiama, di infilarsi a letto ed ecco la scossa.
Per lunghi, interminabili, centocinquantaquattro secondi l’osso di Italia si scuote e scuote le case come una mano le briciole sulla tovaglia, i tetti che si muovono come fiammelle di candele disturbate da un colpetto di fiato, crepe dappertutto.
Alessandro agguanta il figlio piccolo, scappa fuori, le scale si attorcigliano e la porta non è facile da trovare. Comunque, ci riesce e come lui tutta la sua famiglia, quella nuova, creata dal suo matrimonio con Sonia.
L’altra, quella che sta ad Amatrice, ha vissuto gli ultimi centocinquantaquattro secondi della sua esistenza. Ma questo, Alessandro, ancora non può saperlo.
A Posta, la gente si raduna in Piazza San Francesco. C’è buio, odore di stalla e odore di polvere quand’è smossa, qua e là capannelli di uomini e donne che sentono urgente l’istinto di accagliarsi.
Ogni tanto, nuovi sobbalzi.
La corsa ad Amatrice
Alessandro non si tiene. Pensa subito ad Amatrice. Prova a telefonare ma non riceve nemmeno la speranza di un bip: silenzio assoluto.
Decide di andare. La moglie cerca di trattenerlo ma lui non sente ragioni.
Arrivato ad Amatrice, cerca gli angoli delle strade, il negozio del panettiere, l’edificio al cui piano terra sta l’autoscuola. Niente…
Cerca la verticalità delle case, le pareti che delimitano, che fanno da corridoi per i venti ma trova solo ammassi di cemento, ferraglia, oggetti sparsi scappati dalle mani di chi dava loro vita, polvere e fasci di luce provenienti da pile impugnate e che diventano istantanee che provocano sgomento, incredulità. Il dolore, quello, arriverà dopo.
Ha in testa la mappa di Amatrice, Alessandro! Sa che dopo i giardinetti pubblici, sulla destra e poco oltre, c’è il piccolo condominio dove abitavano i suoi. Ci arriva di corsa e non lo trova.
Non lo trova perché ci sta sopra: dodici metri di casa, collassati in appena due.
Macerie ovunque
Che fai scavi?
Si… E che scavi?!?
E casomai con cosa? A mani nude?!?
Urli?
Non hai voce. Le parole se le mangia il dolore. Cosa urli?
Non ti resta che piangere.
Nemmeno quello ti viene.
Assisti e basta. L’ impotenza del non poter far nulla ti toglie ogni forza, sentimento, speranza e vita.
Alessandro è stranito. Ha i piedi sopra i calcinacci che sono diventati tomba dei suoi cari: impiega un po’ a capirlo…
Quattro sono i morti che piange della sua famiglia, ventidue quelli rimasti uccisi nella trappola del condominio collassato su se stesso. Tre i sopravvissuti, tra cui un bambino che chissà come il destino ha voluto mettere su una lastra di cemento e farlo scivolare in mezzo alla strada senza arrecargli un graffio.
I giorni del dolore
I giorni e i mesi che seguono sono quelli del dolore. E anche del tradimento inferto da uno Stato che sembra un pachiderma pieno di patacche e lento a dare le risposte che la gente si aspetta. A dare però forza sono gli italiani, la solidarietà tra comuni cittadini, quella che a Posta ha cementato per sempre la Montagna Tosco Emiliana con quelle genti.
E’ ripartito, Alessandro. Il 12 maggio, davanti alla casa in legno che Letterappenninica ha donato agli abitanti di Posta, lui ripete spesso che “Il terremoto segna e insegna. Chi non ha appreso insegnamento non conosce il valore della vita”
La vita, lui, se l’è tatuata su un braccio. Vi è raffigurato un gatto, un gruppetto di bambini sorridenti e un adulto che si tengono per mano e, sullo sfondo, una casa con accanto un albero fiorito.
Ai piedi di un fiore, il cartello “ Amatrice”.
Più che un tatuaggio, un urlo indelebile di speranza, il recupero disperato della felicità del giorno prima.
Del sisma.
Ha scavato per mesi, Alessandro. Ogni colpo di benna un morso di dolore, un oggetto recuperato che se ne stava impigliato nei ricordi che tornavano a galla come i morti affogati.
Momenti tremendi in cui ti chiedi con assillo se esiste un medico che ti prescriva un farmaco capace di annullare la memoria.
La vecchia “Vespa” sotto le macerie
In molti vorrebbero cancellare la memoria. Alessandro no. Lui, il terremoto lo vuole tenere vivo dentro di sé. Gli ha insegnato i veri valori della vita, gli ha impartito il comandamento del destino e che non ha troppo senso ipotizzare, progettare, arrabbiarsi, stressarsi.
Durante gli scavi ha ritrovato l’ oggetto che sta diventando il simbolo di una rinascita. E’ una Vespa Piaggio, o almeno quello che restava.
Apparteneva al nonno e nemmeno si ricordava più di averla giù in garage. Il peso delle macerie l’ha ridotta a uno sgorbio di ferro, il manubrio che bacia la coda, il pianale slabbrato.
E’ l’ unico oggetto che gli è rimasto della sua famiglia.
L’ha recuperato (pagando anche una cifra per poterselo riprendere dalle macerie) e grazie ad alcuni amici ecco che l’ha restaurato completamente, riverniciandolo di un verde allegro come di verde allegro sono le fronde dell’albero tatuato sul braccio.
Ha fatto così per non dimenticare.
Perché il terremoto non è da dimenticare: chi lo fa si dimentica dei suoi insegnamenti.
E dei suoi cari.
Perché, se esiste un modo per onorare chi è morto, quello di continuare a fare ciò che era nelle abitudini di chi non c’è più è uno dei gesti più importanti e pregni di significati.
Ed è allora che anche un semplice oggetto può assumere il valore profondo della vita…
Sono chiamati a ripartire, laggiù nelle terre martoriate dal sisma. Ripartono e lo fanno da ciò che resta.
E mentre scrivo questa riga, mi torna in mente l’ immagine simbolo di questa due giorni nelle zone terremotate: quella di un vecchio che risale faticosamente una mulattiera con sottobraccio una cassetta con qualche piantina di pomodori da trapiantare.
Robe e gesti da Italia interna e di uomini e donne docenti di resistenza e resilienza.
Federico Pagliai, di ritorno da Posta(Rieti)