E’ ancora Carnevale, anche se le Ceneri si avvicinano. E’ tempo di baldorie collettive, di divertimenti, di sfilate che si svolgono specialmente nell’ultima settimana che precede la Quaresima, la quale è un periodo di privazioni e di mortificazioni della carne.
Eppure il clima festoso che si respira in questi giorni dovrebbe essere velato da una certa malinconia perché si avvicinerebbe, storicamente, il momento delle rinunce; almeno a partire dal Medioevo, le cose stavano così.
E’ quella vaga atmosfera di dubbio doloroso e di precarietà che si riscontra nei Canti Carnascialeschi di Lorenzo de Medici, scritti alla fine del 1400, i Canti di carnevale, appunto. Il fiorentino “Carnasciale” deriva dal tardo-latino carnem laxare, cioè “sospendere l’uso della carne”, in vista del tempo quaresimale; è per questo che nell’antico dialetto vicentino si trova la forma “carlassare”, col medesimo significato.
Analogo procedimento ha generato la parola “Carnevale”, seppure con una piccola differenza morfologica; al tardo-latino carnem levare è seguito l’antico pisano “carnelevare” e alla fine si è giunti all’attuale “Carnevale”, attraverso processi di assimilazione e contrazione che non è qui il caso di spiegare.
A guardar bene, però, anche il mondo antico festeggiava giorni in cui trionfavano le tresche, gli schiamazzi, le licenze di ogni tipo, giorni di liberazione e sfoghi in maschera. I Greci avevano le Feste Dionisiache, i Romani, i Saturnali e i Baccanali, dedicati rispettivamente a Saturno e a Bacco.
Con l’avvento del Cristianesimo, gradualmente, lo spirito pagano si è affievolito, anche se non è mai scomparso quell’inno alle sfrenatezze del vivere che rimane in tanti Carnevali, specialmente fuori d’Italia. Quello di Rio, in Brasile, insegna!