Difficilmente ho trovato un libro, sul futuro delle terre alte, che mi ha preso come questo. Già dal titolo (“Montagne vuote”) e dal sottotitolo (“Homo appenninicus cercasi”) incuriosisce e invita. Poi, una volta iniziato, non vedi l’ora di vedere come finisce. Anzi capisci già, temendola, la probabilissima fine.
Sia in generale per la lunga cerniera montuosa che tiene collegate le due sponde di un’Italia che se ne frega (della lunga cerniera montuosa che la tiene unita) e sia in particolare: per il futuro dei nostri piccoli paesi di un Appennino che unisce due regioni importanti.
Un libro, quello di Marco e Maurizio, che tutti dovrebbero avere in casa. Non per averlo, ma per leggerlo.
In particolare dovrebbero fare lo sforzo di leggerlo almeno tre categorie che elenco in ordine casuale: politici (amministratori locali compresi), imprenditori (commercianti compresi) e intellettuali (giornalisti compresi. Ma da giornalista ho qualche dubbio che la crisi della professione possa ancora farci rientrare in questa nobile categoria che già ha grossi problemi per conto suo).
Un libro che suscita desolazione ma anche speranza
Scritto da due “innamorati delle terre alte”, il libro (compresa la preponderante e necessaria parte demografica) mi ha sollevato sensazioni contrastanti: mi ha reso desolato per un quadro desolante ma anche rincuorato per prospettive rigenerative; mi ha demoralizzato per un presente sconfortante e per un passato di scelte non lungimiranti ma anche eccitato davanti ad alcune potenzialità che pure io vedo nette.
E mi ha fatto arrabbiare davanti all’evidenza dei numeri (sui nostri monti oggi siamo in 15 mila, già pochissimi per contare sui tavoli che contano, ma domani, se nulla interviene, saremo la metà. Abiteranno, i nostri figli, in un deserto. Ma forse se ne saranno andati pure loro).
Ma mi ha anche reso sereno davanti a una visione che, se interpretata bene, potrebbe restituire nuova vita a paesi un tempo vivi ma pure vegeti.
Far tornare in montagna una vita vera
Concordo, in particolare, su un aspetto. La possibilità di far tornare, quassù, vita vera. Non solo turismo finto: sia esso “di massa” o “di qualità”, veloce o lento.
La sfida si coglie e si può vincere a patto di invertire la … residenzialità. Sfida difficilissima e forse già persa. Ma pare l’unica possibile.
Grazie al cambio del clima, grazie al mutamento degli stili di vita, grazie alle nuove tecnologie e al lavoro a distanza, grazie alla rete e alle sue potenzialità … oggi è possibile, specie per giovani famiglie, invertire la tendenza a vivere nelle periferie delle città (i centri storici sono ormai pure essi deserti, riservati a un cattivo turismo non di massa ma di rapina). Oggi è possibile vivere, e lavorare, nelle cosiddette “periferie”. Dunque anche nelle terre alte dove poter trovare beni comuni fondamentali: spazio e benessere, aria e acqua, tradizione e innovazione.
Difficilissimo invertire gli stili di vita. Ma la trovo l’unica strada possibile (che, ovvio, non esclude forme di turismo possibilmente non invasive e all’altezza della modernità).
Se i nostri paesi oggi sempre più abbandonati, con edifici sempre più vuoti, potessero ritrovare vita grazie alla vitalità di nuovi innesti di nuova popolazione … magari piano piano tutto si riaprirebbe. Compresi molti servizi fondamentali che oggi tendono a essere soppressi per mancanza di utenza. Ma siccome il fenomeno è già, con piccoli numeri, iniziato allora sarebbe fondamentale capire che i servizi pubblici (scuola, sanità, comunicazioni, viabilità, sociale…) non devono scappare.
Difficilissimo. Forse utopico. Ecco perché un libro come questo dovrebbero leggerlo, e ragionarci sopra, un po’ tutti. In ordine casuale: politici, imprenditori, intellettuali.
E pure cittadini. Per reagire, con intelligenza, alla “più assurda delle eutanasia omissione in corso nel silenzio generale”: la morte, innaturale, delle terre alte.
Sabato prossimo, 2 settembre, alle 16.30, il libro di Marco Breschi e Maurizio Ferrari sarà presentato a Castello di Cireglio, all’interno della Festa del Parco Letterario Policarpo Petrocchi. Ne discuteranno con gli autori Cristiana Petrucci del Centro Studi Beatrice di Pian degli Ontani e Lorenzo Vagaggini, direttore dell’Ecomuseo Montagna Pistoiese.
LA RIFLESSIONE
DUE MODELLI DI SVILUPPO: OASI VERSUS BOLGIA. IN VENTI PUNTI
Anche stimolato dal libro di Marco e Maurizio, giorni fa mi è venuto di scrivere su Un social una (come al solito lunga) riflessione attorno a due contrapposte, e concrete, vicende/visioni oggi di attualità sui nostri monti locali.
Due modelli (di “sviluppo”?) che creano tifoserie contrapposte ma che, nel massimo rispetto per chi crede all’uno o all’altro, a me non convincono.
Uno si chiama “Dynamo con varie declinazioni” e l’altro si chiama “funivia verso lo Scaffaiolo”.
1) Scritto in vista di un incontro, 25 agosto, al quale non posso partecipare causa altro impegno preso prima.
2) In un contesto locale dal presente imbarazzante ma dalle prospettive interessanti, si stanno agitando – anche con tifoserie contrapposte – due diverse opzioni di sviluppo. All’apparenza contrapposte.
3) Le sintetizzo con due concetti (“oasi” e “bolgia”) in effetti contrapposti. L’uno è il contrario dell’altro.
4) La prima opzione – già molto visibile e che ha dietro potenti realtà dell’economia nazionale basandosi anche su una sapiente strategia comunicativa – esalta, anche nel nome stesso, il concetto di “oasi”.
5) E come in ogni oasi che si rispettivi tutto quello che sta dentro i suoi confini offre benessere, piacevolezza. Dentro l’oasi, tutta recintata e tutta controllata, qualche fortunato sta bene. E poco importa ciò che sta fuori: nel “deserto”. Il verde e la pace dell’oasi, dove tutto è a pagamento, bastano per chi sta dentro e può godere la bellezza di un Creato dai confini … spinati.
6) Ciò che sta fuori dall’oasi può interessare, al massimo, solo come folclore o come contentino per qualche fortunato. E’ un accidente. Nella migliore delle ipotesi una terra di conquista: da acquistare (meglio se a basso prezzo) per allargare l’oasi stessa, fidando anche sulla debolezza del potere pubblico e sulla timidezza di qualcuno che ancora rimpiange il vecchio “padrone”.
7) L’abilità di una comunicazione che fa rima con marketing riesce a fare il resto. Tutto, perfino le malattie, è piegato al grande disegno: allargare i confini dell’oasi.
8) Dall’altra parte c’è l’opzione “bolgia”. Pure essa con i suoi protettori. Ma questi (nella loro semplicità e immediatezza) assai meno potenti rispetto a ciò sta dall’altra parte. E l’altra parte, l’oasi, con il suo potente tifo, non ha problemi perfino a cavalcare le obiezioni contrarie: quelle … contro la bolgia.
9) Sullo sfondo di entrambe le opzioni sta un certo numero di milioni (di euro) che il potere pubblico nazionale e regionale pare abbia messo a disposizione per l’opzione bolgia. Non sarebbe strano se su quei denari ci avessero messo l’occhio – legittimamente, ci mancherebbe – anche quelli dell’opzione oasi. Per utilizzarli in altro modo. Per indirizzarli, se possibile, altrove.
10) Quelli della bolgia ritengono che sia ancora il tempo, in un ambiente naturale delicatissimo, per inserire cemento e acciaio realizzando – come si faceva decenni fa – opere di trasporto che i detrattori fanno poca fatica nel definire antistoriche, superate dal tempo, vecchie, diseconomiche.
11) La contrapposizione con l’oasi è evidente. Se nell’oasi, sempre più grande, si sta bene proprio perché si è isolati, si cerca la tranquillità e si è capaci, pagando, di usare un ambiente ormai privatizzato, il discorso è diverso per l’altra opzione.
12) Nella bolgia si invita chiunque, scansandogli ogni sana fatica, a salire in alto. Magari con gli infradito. Visto che il clima, in prospettiva, non aiuterà certo gli sport invernali, allora si punta per una funzione soprattutto estiva.
13) Sembrano contare poco, per i tifosi dell’opzione bolgia, le ragioni di chi obietta non solo sui danni ambientali in un contesto da ecosistema prezioso e unico, ma anche sulla mancanza di un senso economico, in prospettiva, da questo investimento.
14) A entrambi (da una posizione che vuole essere laica: dunque priva di pregiudizi e capace di vedere luci/ombre di entrambe le opzioni), forse la cosa migliore è un invito alla ragionevolezza. A una sosta di vera riflessione. Anche sull’uso migliore – non per questo o quel portatore di interesse, ma per una comunità intera peraltro sempre più piccola e invecchiante – dei famosi milioni (16?) di denaro comunque pubblico.
15)- Può aiutare tutti un richiamo alle novità che lo scorso anno con legge costituzionale sono state introdotte in due articoli della Costituzione: il 9 e il 41.
16) Nessuno ne parla, ma calzano a pennello. Sembrano fatti apposta per favorire una riflessione seria. Attorno alla necessità di andare oltre a entrambe le due opzioni. Nessuna delle quali (né l’oasi né la bolgia) utili per un futuro sostenibile, equilibrato, giusto e moderno di questa parte di Appennino. Che sta morendo. E che di altro avrebbe bisogno. Specie di una Politica vera, capace di visione.
17) Il nuovo articolo 9 introduce, fra i compiti della Repubblica, sia “biodiversità” che “ecosistemi”. E aggiunge sei parole strategiche che chiamano tutti noi a una responsabilità enorme: “anche nell’interesse delle future generazioni”.
18) Il nuovo articolo 41 (quello sulla libertà dell’iniziativa economica privata) aggiunge due concetti (“salute” e “ambiente”) al già esistente limite costituzionale di tale iniziativa economica privata. Nessuna impresa, nessun imprenditore, può dunque agire – ecco la novità introdotta – in contrasto con l’ambiente.
19) Grida manzoniane? Appelli nobili ma teorici? Può essere. Ma è la Costituzione, non una singola legge, a reclamare da tutti attenzione per … paesaggio, ambiente, biodiversità, ecosistemi ricordando a tutti – come direbbe Papa Francesco – che noi siamo solo “custodi” non certo “padroni” del Creato. E che dobbiamo pensare ai nostri nipoti, bisnipoti, eccetera. E che sarebbe errato usare a fini totalmente speculativi (oasi) e/o intaccare (bolgia) ciò, prezioso più dell’oro, di cui siamo custodi.
20) Un appello alla ragionevolezza e alla pacatezza, a superare contrapposti integralismi, a capire e ascoltare tutte le ragioni (specie quelle comunitarie) che ritengo – anche per colpa di una evidente debolezza di istituzioni pubbliche e della Politica – destinato a fallire. O magari no. Chissà.