Se c’è una pianta che, insieme alla vite, ha accompagnato e segnato la civiltà mediterranea per migliaia di anni, questa è l’olivo. Non c’è ambito della vita in cui direttamente o indirettamente non abbia avuto un ruolo importante, dall’alimentazione allo sport, dalla medicina alla veterinaria, dall’economia all’ambiente, alla religione, alle varie branche dell’arte.
L’olio è ancora oggi al centro della gastronomia e rispetto ad altri condimenti è il più sano e il più ricco di apporti benefici. Si può dunque dire che l’olivo è il nostro albero, perché ci appartiene come un vecchio amico, ci connota tanto da assurgere a simbolo di un’intera civiltà e nemmeno l’arte poteva ignorarlo.
Pittori come Van Gogh, Monet, Signorini, Fattori o registi come la Bollain, oppure poeti e scrittori come D’Annunzio, Pascoli e Pirandello ne hanno tratto ispirazione dando vita ad opere immortali.
Giuseppe Cinà, il poeta dell’olivo
Recentemente è uscito un libro di poesie, presentato tra l’altro a Montemagno di Quarrata a cura dell’Associazione culturale AGORA’, scritto da un architetto e professore universitario siciliano, Giuseppe Cinà, che a ragion veduta può essere definito molto interessante, dal titolo L’Arbulu nostru- Il nostro albero.
E’ dedicato interamente all’olivo e contiene liriche in siciliano, con a fianco la versione italiana, che le rende particolarmente suggestive e che meritano un approfondimento con l’aiuto dell’autore.
L’intervista
L’arbulu nostru /Il nostro albero, è il titolo del libro di poesie che hai presentato in varie sedi in giro per l’Italia: perché proprio all’olivo è dedicata quest’opera?
“Ho scelto il tema dell’ulivo a partire dal bisogno di dare forma e voce al mio incontro con la natura. Un incontro che viene da lontano, a partire dalla piana agrumicola di Palermo ancora esistente quand’ero ragazzo. Poi da grande l’ho ritrovata sotto forma di ‘ambiente’ e ‘paesaggi’, l’ho frequentata attraverso i viaggi, l’ho studiata nell’ambito del mio lavoro di urbanista. Infine, mi sono accorto che l’esperienza di quegli ambienti e quei paesaggi restava in qualche misura limitata e che gli ulivi, che nel frattempo avevo cominciato a coltivare, mi permettevano di avvicinarmi più in profondità alla natura. In altre parole, alla sua poesia.
Leggendo queste poesie ci si accorge anche del tuo potente senso di appartenenza alla terra che ti ha dato i natali. Quale importanza hanno avuto le tue radici nella tua formazione di uomo, di architetto e di professore universitario?
“La risposta è scontata, hanno avuto una importanza fondamentale, e aggiungerei salvifica. Perché il sentire questa appartenenza mi ha subito fornito un quadro di riferimento forte e stabile. Non ho mai sofferto di un deficit di identità, sapevo fin da ragazzo che avrei voluto essere un uomo identificabile con il mio bacino culturale di provenienza, con il tipo di famiglia che ho avuto, con la campagna, e anche con il bianco della pietra iblea, il nero della lava e il giallo del tufo, per metterla in metafora architettonica. Il problema semmai è stato quello di conoscere davvero, di ‘meritare’ questi ‘titoli’ di cui mi volevo dotare, e questo non è stato e non è facile. Non basta immaginarsi dotato della nobiltà di una colonna del tempio della Concordia di Agrigento e dirsi ‘sono siciliano’. Essere siciliano è un problema da risolvere più che un benefit da incassare. Quello dell’ulivo ne è un chiaro esempio. Ho vissuto tutta la vita incontrando l’ulivo senza sapere davvero cosa fosse. L’avevo incrociato infinite volte nella letteratura, nell’arte figurativa, nella religione e nei miti. Avevo raccolto le olive, avevo familiarità con questa pianta, ma non era bastato. È l’aver continuato a seguire un mio percorso di ricerca sui valori del mondo siciliano e mediterraneo che mi ha infine permesso di conoscerlo più profondamente. Ed è solo dopo aver cominciato a coltivarlo che poco a poco mi si è aperto il suo mondo e l’ho riconosciuto come mio. Ho così cominciato a vederlo non solo con gli occhi del corpo ma anche con quelli della mente e del cuore”.
Nella tua esperienza professionale ti sei occupato del rapporto tra città e territorio; ma non ti sembra che la scelta quasi esclusivamente metropolitana dei nostri tempi penalizzi la campagna e tutte le aree interne?
“Si, certo, la forma abitativa di gran lunga prevalente è oggi quella urbana, una deriva che viene da lontano, basti pensare che essa destava preoccupazione già a Virgilio, nelle sue Bucoliche, nel 40 a.C.! E il problema non sta tanto nella ‘scelta’, che lascia dietro di sé gravi squilibri, a cui forse con enormi sforzi si potrebbe riparare, bensì nel fatto che insieme alla forma è cambiata anche la cultura abitativa. Con il boom economico succeduto al secondo dopoguerra si è compiuto l’atto finale di un processo di rimozione del mondo agricolo come mondo di arretratezza e sopraffazione. La città prometteva e ha dato molto di più, in primo luogo sotto il profilo materiale. Da qui la civiltà contadina, che aveva segnato per cinque millenni il mondo mediterraneo e non solo, è uscita fuori dalla storia, con la contemporanea perdita di un patrimonio culturale la cui importanza è ancora largamente sottostimata. Le società urbane hanno molta difficoltà a riconoscere questo lascito, la cui natura resta per molti versi difficile da penetrare anche agli studiosi specialisti, tuttavia molto di questo mondo del passato è ancora presente tra noi ed è nostro compito fare il possibile per tenerlo vivo e dialogante con la cultura urbana”.
Ma torniamo al tuo libro; le poesie abbracciano tutta la storia umana, di cui l’olivo è stato degno compagno. Molti poeti ne hanno svelato il valore simbolico, ma ne L’àrbulu nostru mi sembra che ci sia anche qualcos’altro.
“Si, restando sul tema dell’identità di cui si è detto prima, nel libro c’è l’intenzione di offrire un invito e un ammonimento. Da un lato l’invito a riconoscere la storia e il valore dell’ulivo nei suoi vari aspetti e nella sua capacità di rappresentarci; dall’altro, conseguentemente, l’ammonimento a prendercene cura, a riportarlo dentro la storia del presente non solo come vacca da mungere ma come compagno di viaggio. Si tratta dunque di un ritorno alle nostre origini sulle tracce dell’ulivo, albero fondativo come pochi altri nel formarsi della civiltà intorno al Mare nostrum, per contrastare il suo esaurirsi nel mondo globalizzato”.
So che sei proprietario di un oliveto in Sicilia e sei anche olivicoltore. In che modo l’attività di coltivazione ha affinato la tua sensibilità verso questa straordinaria pianta?
“Direi in modo sostanziale. Se noi guardiamo, anche con attenzione, un alveare in mezzo a un campo ne conserviamo una esperienza limitata. Ma se chiediamo di quest’alveare all’apicultore che lo cura, scopriremo in esso lui riconosce un mondo di grande complessità. Perché con esso ha modo di scoprire le interazioni tra il mondo animale e quello naturale. Lo stesso avviene con l’ulivo (e con molte altre piante). Mi sembra banale dirlo, ma coltivare l’ulivo è come andare continuamente a scuola di natura. In occasione di ogni incontro l’albero ci dà continue informazioni sia sulla sua vita che su quella della natura più in generale. Informazioni che solo in parte sono di natura fisico-chimica e in buona parte attengono ai significati e ai valori di una interazione in cui ritroviamo noi stessi. La coltivazione, cioè il lavorare dentro la ‘sala macchine’ della natura, è infatti un’esperienza unica per capire la natura e noi stessi. Io, per dirne una, dall’ulivo ho appreso da un lato l’arte di non smettere mai di curare le cose a cui teniamo (e quello che lui fa tutti i giorni, quali che siano le avversità che incontra), dall’altro quella di contentarci sempre di quello che ne ricaviamo. Come facciamo con gli ulivi. Spesso ci promettono grandi raccolti e altrettanto spesso ci danno meno di quanto atteso: e per questo noi non li abbattiamo stizziti ma li teniamo con noi, affezionati come a un figlio che a scuola non va bene come vorremmo ma che, comunque, amiamo”.
Uliveti nella riserva dello Zingaro
Alcune poesie
da Giuseppe Cinà, L’àrbulu nostru/ Il nostro albero, La Vita Felice, 2022
Petra nurrizza
Li carrubbi spuntàvanu cchiossà sularini
nna la màcchia, a la campìa luntanu
unni avìa carutu la simenza
l’alivi no.
L’alivi vicinu si chiantàvanu,
ma a parti siccagni, opuru
si nzitàvanu nn’agghiastri fora di lu jardinu
unni macari li petri dàvanu sustanza a la terra.
A iddi un si cci passava lu crapìcciu
di lu tirrenu chianu e funnali,
chiddu era un làscitu di lussu
sarbatu pi lu furmentu, pi fùiri la fami.
Ma arriciuppannu acqua tra ciachi e acquazzini
miremma li pàmpini vinèvanu lustri e umiti
comu limiuna d’austu. Li vecchi lu sannu
l’alivu voli muntagna.
Pietra nutrice
I carrubbi crescevano per lo più solitari
nella macchia, nei pianori lontani
ov’era caduto il seme
gli ulivi no.
Gli ulivi vicino si piantavano,
ma in parti seccagne, oppure
s’innestavano sugli ogliastri fuori dal campo
dove persino le pietre nutrivano la terra.
Ad essi non si concedeva il capriccio
del terreno piano e profondo,
quello era un lascito di lusso
riservato al frumento, per scampare alla fame.
Ma racimolando acqua tra calcari e rugiade
lo stesso le foglie venivano lustre e umide
come limoni d’agosto. I vecchi lo sanno
l’ulivo vuole montagna.
Nzitu
Quannu pàrtinu li ciuri d’alastru
e la scòrcia s’intinnirisci, namentri
li ràrichi tornanu a sucari lu latti di la terra
e napocu ri gemmi di rintra ammùttanu
l’agghiastru, ddisiusi di strugghìrisi a la luci
e a lu celu di luna criscenti, arriva un nuddu
e lu tàgghia nsiccu nta lu zuccu
cu manu ferma e ferru ammulatu.
Già fridda la virdi curuna sdirrubba nterra
antura china di futuru, ora ligna pi càmula
e sulu un muzzuni ntiniri arresta,
cu la peddi liscia e china di linfa,
ìllicu ìllicu nzitatu e attappatu cu pici nìvura.
Ora lu prìncipi di la màcchia pò jittari sulu
di li gemmi strànii di na brocca mansa
azziccata a taccuni tra scòrcia e lignu
p’avvirsallu a ciumari di rami criscenti
e pàmpini, ca spicci acchiànanu, a sàvuti
versu li granni pàsculi di lu suli.
Accussì un lignu nuru
pò fari firriari lu munnu e ddu Donnuddu
ca si ntinnirisci pi li so pampineddi nnunnati
è na lapa c’accumpagna incantata
lu granni disignu di la natura.
Innesto
Quando fiorisce la ginestra spinosa
e la corteccia s’intenerisce, mentre
le radici tornano a suggere il latte della terra
e folle di gemme da dentro premono
l’ogliastro, bramose di sciogliersi alla luce
e al cielo di luna crescente, arriva un nessuno
e lo taglia di netto sul tronco
con mano ferma e affilato ferro.
Già fredda la verde corona precipita a terra
poc’anzi piena di futuro, ora legna da camola
e solo un moncone in amore rimane,
con la pelle liscia e ricolma di linfa,
subito innestato e tappato con pece nera.
Ora il principe della macchia può sbocciare solo
dalle gemme stranie di una marza domestica
ficcata a scudo tra corteccia e legno
per riformarlo a fiumare di rami crescenti
e foglie, che presto salgono, a balzi
verso i vasti pascoli del sole.
Così un nudo stecco
può far girare il mondo e quel Signor nessuno
che s’intenerisce per le sue prime foglie
è un’ape che accompagna incantata
il grande disegno della natura.