“Se un albero scrivesse l’autobiografia, non sarebbe diversa dalla storia di un popolo.” (Kahlil Gibran)
Aveva ragione l’autore de “Il Profeta”: se gli alberi potessero scrivere ci racconterebbero una storia non meno avvincente di quella degli esseri umani. Forse quella degli alberi sarebbe solamente una storia un po’ più lunga. Le foreste si sono evolute negli ultimi 300 milioni di anni, mentre il loro incontro con l’azione dell’uomo risale a poche migliaia di anni fa. Le foreste quindi “non hanno alcun bisogno di noi, esistono da prima che esistesse l’uomo e all’uomo sopravvivranno”. Umiltà e rispetto dovrebbero dunque essere gli elementi essenziali del nostro rapporto con le foreste. Ma purtroppo spesso non è così.
Solitamente, a causa di una radicata visione antropocentrica eredità dell’Illuminismo, siamo abituati a considerare le foreste come il prodotto dell’intervento dell’Uomo. In realtà le aree forestali sono complessi sistemi capaci di svilupparsi e autoregolarsi, senza bisogno del nostro intervento. La pensa così Alessandro Bottacci, professore a contratto di “Nature Conservation” presso l’Università di Camerino e direttore del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi.
DUE FATTORI FONDAMENTALI: SPAZIO E TEMPO
Gli ecosistemi forestali, per sviluppare tutta la loro complessità e raggiungere una stabilità, necessitano di due fattori fondamentali: spazio e tempo.
La dimensione spaziale è importante sia in termini di estensione, lo “spazio minimo vitale della foresta”, sia in termini di sviluppo verticale, ovvero quello che viene definito “spessore ecologico” o “biospazio”. Lo sviluppo verticale della foresta, determinando gradienti di microclima, ha un importante valore ecologico in termini di biodiversità e biocomplessità.
Il tempo, altro fattore determinante per lo sviluppo della foresta, deve però essere misurato con una scala molto diversa dalla nostra: il tempo delle foreste non è il tempo dell’Uomo.
Troppo spesso, purtroppo, l’intervento dell’Uomo non tiene conto, nella misura adeguata, di questi due fattori. Il bosco non viene quasi mai considerato come un sistema complesso autopoietico (cioè capace di autoregolarsi) ma, al contrario, come un insieme di alberi da utilizzare, a fini produttivi, senza considerare le sue esigenze in termini di spazio e di tempo. In quest’ottica dunque gli interventi di taglio rappresentano un disturbo innaturale per le foreste. Tuttavia l’Uomo, da parte sua, ha anche la necessità di avere a disposizione i prodotti legnosi che le foreste forniscono. La sfida per il futuro dovrebbe dunque essere quella di operare in modo da ottenere quanto serve all’Uomo, riducendo al minimo il disturbo all’ecosistema forestale, e lasciando alle foreste lo spazio ed il tempo di cui hanno bisogno.
Quelli appena esposti sono concetti che Alessando Bottacci promuove da tempo. Per approfondire meglio questi argomenti abbiamo chiesto il suo parere proponendogli alcune domande mirate.
Sergio Endrigo, nella sua famosa canzone, cantava “Per fare un tavolo ci vuole il legno, Per fare il legno ci vuole l’albero, Per fare l’albero ci vuole il seme…”. Con una piccola forzatura, e anche un pizzico di ironia, potremmo dire che, in questi versi, c’è la sintesi di una visione antropocentrica dell’intervento, orientato a fini produttivi, dell’uomo sulle aree boschive: ovvero dal seme al tavolo. Al contrario, storpiando un po’ le parole della canzone, potremmo dire che “per fare un albero ci vuole un albero”. Ovvero che la foresta, come lei ci insegna, non ha bisogno del nostro intervento. Può spiegarci meglio questa idea che appare così alternativa rispetto alle convinzioni prevalenti?
“Proprio perché si sono evolute in milioni di anni, le foreste hanno messo in atto un sistema di adattamento ai disturbi esterni che permette loro di attutire i danni. Questo è fondamentale considerando che, a differenza degli animali, gli alberi sono fissi al suolo e non possono né fuggire, né ripararsi nelle tane. Il segreto dell’adattamento delle foreste è nella loro complessità che, a sua volta è legata al tempo e allo spazio. L’uomo ha vissuto in rapporto con le foreste per migliaia di anni ma, ad un certo punto il numero degli individui della nostra specie è aumentato e sono aumentate le sue capacità tecniche di distruzione delle foreste, mentre i meccanismi del bosco sono rimasti gli stessi. Inizialmente la capacità di resilienza delle foreste ha permesso di tamponare gli effetti negativi di questa azione, ma col passare del tempo il ritmo di distruzione ha assunto una velocità decisamente superiore a quella di reazione degli ecosistemi forestali. Per questo motivo l’uomo ha ridotto gli spazi a disposizione delle foreste e ne ha semplificata la struttura e la composizione, rendendole decisamente più vulnerabili”.
Le nostre moderne Società, affamate di “immediatezza”, sono basate sul mito della velocità e della giovinezza. La vita delle foreste però si misura con un metro totalmente diverso basato su lentezza e invecchiamento. Secondo lei è possibile trovare un equilibrio tra la dimensione dell’Umano, orientata anche ai fini produttivi, e la vita delle foreste?
“Certamente è possibile trovare un equilibrio. Occorre però che l’uomo assuma un atteggiamento di conservazione e risparmio, che permetta alle foreste di tornare ad espandersi e a crescere in volume, età e altezza. Solo aumentando il capitale produttivo totale e per ettaro, si può trovare una conciliazione tra conservazione e utilizzazione. Purtroppo i tempi di prelievo e le quantità di legno prelevate sono decisamente superiori per cui si va verso un progressivo e accelerato impoverimento ecologico e produttivo. Oggi si ha un approccio ‘estrattivo’ che vuole massimizzare il profitto immediato, non preoccupandosi della conservazione nel futuro e non considerando i diritti delle generazioni future. Si pensa al ‘qui ed ora’ e questo è un atteggiamento decisamente contrario a quello richiesto dalla conservazione degli ecosistemi forestali, della loro funzionalità e della loro produttività”.
In un recente articolo, pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”, lei e Aldo Loris Cucchiarini sostenevate che “Oggi abbiamo la straordinaria occasione di creare foreste evolute […] Nessun periodo storico, negli ultimi secoli, è mai stato così favorevole.” Può spiegarci brevemente su cosa è fondato questo vostro ottimismo?
“Per prima cosa si fonda sulla consapevolezza dell’importanza fondamentale delle foreste che si va piano piano diffondendo tra la gente e, in parte, nella classe politica, un po’ meno nel mondo accademico, spesso ancora ancorato a vecchi dogmi, decisamente superati dalle nuove conoscenze ecologiche.
Un altro presupposto positivo è che gli ultimi 60 anni (almeno in Italia) sono stati caratterizzati da una riduzione della pressione sulle foreste. Questo ha permesso a molti boschi ‘abbandonati’ di recuperare il proprio equilibrio, crescendo e tornando almeno ad una migliore situazione strutturale. Adesso, grazie ai nefandi incentivi statali e regionali in favore dei tagli e delle biomasse, si è sviluppato un nuovo interesse per il bosco, interesse morboso ed egoistico, come ho detto prima. Siamo ad un bivio e dobbiamo fare una scelta: liquidare in tempi rapidi tutto il capitale accumulato in questi anni di riposo o continuare con un atteggiamento di risparmio, limitando i prelievi e permettendo al bosco di continuare a crescere e ad aumentare il proprio capitale produttivo. È ovvio che io propendo per questa seconda scelta, che è la sola che permette di aumentare la vitalità delle foreste e la loro capacità di offrire all’Uomo e al Pianeta i tanti benefici ecosistemici, fondamentali e anch’essi monetizzabili”.
Nel 2018 la Tempesta Vaia, abbattutasi sulle regioni del nord-est, causò lo schianto di milioni di alberi e la distruzione di decine di migliaia di ettari di foreste alpine. Quell’evento catastrofico quanto può essere collegato a fattori naturali e quanto piuttosto all’intervento dell’essere umano nel corso del tempo?
“Vaia è stato un evento decisamente eccezionale (basti pensare che ci sono state raffiche di vento a quasi 200 km/h), un evento al quale nessuna foresta avrebbe potuto resistere senza subire danni. Certamente il fatto che si trattasse in gran parte di monoculture di abete rosso (quindi foreste molto lontane dalla struttura naturale) ha accentuato ancora di più il danno. Il problema maggiore è che questi eventi stanno divenendo sempre meno eccezionali e aumentano di intensità e frequenza, mentre il bosco non ha la capacità di adattarsi in tempi rapidi a questi nuovi livelli di disturbo. Ovviamente la causa di questo incremento degli eventi gravi (come anche degli incendi, delle infestazioni, delle frane, delle alluvioni, ecc.) è strettamente legato al cambiamento globale che, a sua volta, è conseguenza delle azioni dell’Uomo. In particolare la causa principale di tutto lo squilibrio è da ritrovare nell’aumento delle emissioni di gas serra (come Anidride carbonica e Metano) dovuto alle combustioni, agli allevamenti e alla deforestazione, e nella riduzione dell’assorbimento della stessa anidride carbonica a causa della gravissima riduzione delle foreste e della riduzione della vitalità degli oceani”.
Tutti ricordiamo i drammatici incendi del 2019 nella Foresta Amazzonica. Furono settimane di apprensione per il destino di quello che, solitamente, viene definito “il polmone verde del pianeta”. Si tratta però di una dinamica paradossale: noi ci preoccupiamo, e ci angosciamo così tanto, per le foreste dall’altra parte del mondo poi però, qui a casa nostra, siamo spesso indifferenti per la salute delle nostre aree boschive. Secondo lei da cosa dipende questa “sfasatura” percettiva?
“Prima di tutto dipende da una scarsa propensione ad assumersi delle responsabilità: fintanto che a cadere sotto i colpi della motosega o delle fiamme sono foreste lontane, ci sentiamo giustificati dal fatto che siamo impotenti e che i fatti sono troppo lontani da noi perché possiamo intervenire.
Esiste poi la convinzione che, nel nostro Paese, i boschi siano sempre stati tagliati e che questi interventi siano addirittura necessari per mantenerli in buona salute. Purtroppo non è così. Oggi dobbiamo conservare, tutelare e risparmiare ogni metro quadro di foresta, se vogliamo uscire da questa crisi mondiale.
Più avanziamo nell’alterazione degli equilibri naturali e più sarà difficile tornare indietro. Si avvicina a grandi passi il punto di non ritorno, oltre il quale il Pianeta reagirà in modo incontrollato, con conseguenze gravi soprattutto per la capacità di sopravvivenza del genere umano.
Occorre agire con intelligenza, cautela e generosità. Se continueremo a trattare le foreste come delle semplici fabbriche di legno, senza pensare che sono principalmente sistemi naturali complessi dai quali dipende questo tipo vita sulla Terra, andremo incontro, in modo consapevole o inconsapevole, a gravi disastri.
Se è vero che “la bellezza salverà il mondo”, come afferma il principe Miškin nell’Idiota di Dostoevskij, cosa possiamo trovare di più bello per salvarci se non le meravigliose foreste?”.