L'arte artigiana  |  aprile 3, 2020

Le carte, passatempo antico e moderno. Oggi quasi una necessità…

In tempi di Coronavirus sono uscite dai cassetti di tante case. Un gioco antico mai venuto meno. Nel 1677 il Granduca di Toscana volle il bollo granducale sui mazzi della Montagna pistoiese. I “semi” diversi - bastoni, spade, denari e coppe oppure cuori, fiori, picche e quadri – a seconda delle zone. La triade costituita da Briscola, Tressetti e Scopa. Il ruolo della Morra e dell'Omonero

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In queste lunghe giornate di segregazione domestica saranno certamente usciti dai cassetti i mazzi di carte per passare qualche momento di serenità familiare. E le carte da gioco hanno rappresentato uno dei pochi svaghi anche dei nostri avi montanini.

Le origini antiche

Nei giorni di festa gli uomini si ritrovavano nelle botteghe, nelle taverrne, nelle osterie e giocavano il fiasco di vino o, in casi più rari, solo il quartino, usando le carte toscane o quelle piacentine, a seconda dei luoghi, perché la nostra montagna è stata per secoli uno spartiacque di confine tra stati diversi tra loro.

I diversi “semi” a seconda delle zone

     

Le carte toscane (a sinistra) e quelle piacentine (o napoletane)

In qualche paese i semi erano bastoni, spade, denari e coppe, mentre in altri si accennava a cuori, fiori, picche e quadri. I toscani poi invocavano il gobbo, la donna e il regio, mentre sul confine emiliano le stesse carte diventavano il fante, la regina e il re.

Talvolta succedeva che in alcuni locali si potesse scegliere tra i due tipi di mazzi, a seconda delle preferenze dei giocatori.

Il bollo granducale sulle carte della Montagna Pistoiese

Il gioco delle carte era, dunque, lo svago più comune e come tutti i giochi “d’azzardo”suscitava interessi fiscali. Nel 1677 il Granduca di Toscana stabilì che nella Montagna pistoiese su ogni mazzo doveva essere stampigliato il bollo granducale e, a partire dal 1862, il bollo divenne obbligatorio sull’asso di cuori, per le carte toscane e sull’asso di denari, per quelle piacentine.

Briscola, Tressetti e Scopa

La triade più comune era costituita da briscola, scopa e tressetti (giochi diffusi tra il 1700 e il 1800); chi ne vinceva due su tre otteneva l’intera posta.

Nei locali paesani l’atmosfera era particolare: le volute di fumo dei sigari e delle pipe si impastavano con moccoli, bussate poderose e urla e c’era sempre chi si arrabbiava veramente anche perché la colpa di qualche improvvida giocata era sempre attribuita al compagno di gioco che non aveva capito un ammiccamento o uno sguardo apparentemente e impercettibilmente distratto dal tavolo “poco verde”, ma che doveva avere un significato preciso.

Nella maggioranza dei casi chi usciva sconfitto pagava poco, anche perché la miseria imperava, ma se a casa il malcapitato aveva una moglie come la mia bisnonna era già in croce. Ogni domenica pomeriggio l’Esterona metteva in tasca del marito pochi soldi e mentre lui si avviava alla bottega per giocare il fiasco, sentiva l’eco delle parole della moglie: “Arcordate, stasira i’ vo’ arveddergli!!” ( E ricordati bene, stasera li voglio rivedere!).

La morra

Diverso il discorso per la Morra, un gioco molto antico, comune già al tempo degli Egizi e dei Romani, che consisteva nel dire prima la somma delle dita delle mani stese in contemporanea da due giocatori. Chi indovinava si aggiudicava il punto. Tuttavia la concitazione del momento, il ritmo ossessivo imposto dai giocatori e spesso l’altezza della posta rendevano la morra un gioco ad alto rischio, tanto che è stato considerato un vero e proprio gioco d’azzardo, e per gran tempo, fino ad oggi, vietato dalla legge.

Comunque quassù da noi è stato molto praticato e non ha mai raggiunto livelli pericolosi; tutt’al più, fra urla e sberci, accadeva che le mani si usassero anche per potenti scazzottate e spintoni

L’Omonero

Un tempo nelle famiglie sia gli adulti che i bambini trascorrevano qualche ora giocando all’Omonero; da un mazzo di carte si toglievano tre fanti (o gobbi, alla toscana) e ne restava solo uno, il fante di spade o di bastoni, oppure il gobbo di picche, per le carte toscane.

Si poteva giocare in due, e fino ad otto; il gioco consisteva nello scartare le coppie di carte uguali finché l’unica carta scoppiata, appunto l’omonero, restava in mano ad un giocatore, al quale era riservata una penitenza, per lo più innocente.

A dispetto del nome (si chiamava Omonero il servitore vestito di nero che accompagnava i feretri) il gioco è semplice, particolarmente divertente e adatto ad ogni età, anche se all’inizio del 1900 era ascritto tra i giochi d’azzardo.


Maurizio Ferrari

Maurizio Ferrari, sambucano di origine, ha insegnato Lettere per 38 anni nelle Scuole superiori pistoiesi. Ora è imprenditore agricolo e si sta impegnando nella promozione e nel rilancio del territorio appenninico come Presidente dell'Associazione "Amo la montagna APS" che si è costituita nel 2013 e che ha sede a Castello di Cireglio.Ha collaborato per 25 anni alla rivista "Vita in Campagna", del gruppo "Informatore Agrario". Recentemente ha pubblicato alcune raccolte di racconti ispirati alla vita quotidiana di Sambuca, dal titolo :"Dieci racconti sambucani"; "La mia Sambuga" e "Cuori d'ommeni e di animali", nonché una favola per bambini, "La magìa della valle dimenticata" illustrata dagli alunni della scuola elementare "P.Petrocchi " di CIreglio (Pistoia)