La notizia è recentissima: i muretti a secco sono stati dichiarati dall’UNESCO “Patrimonio immateriale dell’umanità”. La richiesta di questo riconoscimento è stata avanzata da otto paesi europei: Italia, Croazia, Cipro, Francia, Grecia, Slovenia,Spagna e Svizzera.
Le motivazioni sono varie;. Intanto i muri a secco sono i primi esempi di manifattura umana nel corso dei millenni, poi sono in piena sintonia con l’ambiente e non lo stravolgono, inoltre prevengono le frane e le alluvioni, combattono l’erosione e la desertificazione. Infine migliorano la biodiversità e il microclima agricolo.
Cosa ne sarebbe dell’entroterra ligure senza i terrazzamenti a secco o della Sardegna senza i Nuraghi o ancora della Puglia senza i Trulli? Ma di esempi se ne potrebbero fare moltissimi, per non parlare dei chilometri e chilometri di muretti a delimitazione delle proprietà terriere, dal più profondo sud fino al nord.
E qui da noi?
Ma non c’è bisogno di andare tanto lontano; chi non ha intorno a casa un muro a secco fatto dai propri avi? Quanti di noi, percorrendo sentieri storici non hanno visto muri che resistono da centinaia di anni e per i quali non è stato usato nemmeno un grammo di cemento o malta?
Sembrerà un controsenso, ma i muri di cemento non resistono a lungo alla spinta del terreno, mentre quelli a secco consentono all’acqua piovana di filtrare ed impediscono gli smottamenti.
Eppure, dopo questo meritato riconoscimento, cosa ci resta?
Chi è più capace di realizzare un muro a secco? Quanti muratori, ormai educati al divino cemento armato, sanno usare mazzetta e mazzuolo e mettersi, con pazienza, a modellare pietre, fare scaglie e scagliette ad incastro e riempimento. Chi sa fare le prese orizzontali e verticali per incatenare questi muri che, se fatti bene, resistono per secoli?
Fino a cinquant’anni fa ogni muratore imparava da subito ad avere a che fare coi sassi, a rifinirli, a squadrarli ed allora accadeva che un mazzacane (cioè un sasso senza arte né parte) acquistasse una forma “artistica” sotto i colpi sapienti del mazzuolo e trovasse all’interno di un muro una dignità insperata.
Che effetti produrrà riconoscimento?
Speriamo, allora, che l’Italia, uno dei paesi promotori di questa richiesta, faccia seguire i fatti alle parole e che promuova quest’arte antica. Come fare?
Sarebbe facile. Basterebbe che enti o associazioni di categoria organizzassero corsi pratici gestiti dagli ultimi artigiani rimasti e raccogliessero giovani italici o extracomunitari volenterosi, consentendo loro di imparare un mestiere utile alla comunità e di riproporre competenze millenarie che vanno scomparendo.
Lo stesso vale per altre attività di cui si vanno perdendo le tracce: chi sa potare, innestare, fare giardini, fare ceste, panieri o lavorare il legno come i “vecchi” falegnami?
Eppure ce ne sarebbe un estremo bisogno anche qui da noi, in montagna.
Sarebbe bello poter vedere più giovani nei boschi e nei campi, ma non per lavorare con gli stessi metodi faticosissimi dei nostri nonni, ma per coniugare i progressi della tecnologia con la sapienza della tradizione e magari con un po’ di fantasia creativa. Questa si chiama civiltà e ciò che ne risulta si chiama progresso.