Lettere al Direttore, Ambiente  |  novembre 6, 2018

“C’è chi vorrebbe cancellare tutti gli interventi fatti su questi monti”

Lettera di Santa Ballerini che rivendica l'importanza di taglio ciclico del bosco, impianti di castagneti, spianamento dei terreni, regimentazione e pulizia dei fossi e molto altro ancora. In polemica con un "ecologismo" immobilista. Riflessioni sullo spopolamento delle zone montane e sul degrado del territorio. Gli affetti dell'incuria, i pericoli rappresentati dai fiumi

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I boschi aggrediti da un eccesso di verde a causa dell'incuria

Tanto sono d’accordo con quanto scrive Maurizio Ferrari il 20 scorso nel pezzo dal il titolo “Ma la catena dei monti intorno alla piana Pistoia-Prato-Firenze diventerà un’inestricabile foresta amazzonica?” che replicare per dargli mille volte ragione su tutto mi sembrava disdicevole. Tutti sanno che siamo amici, che la pensiamo allo stesso modo, che vediamo nero (molto nero, purtroppo!) il futuro dei nostri monti.

Il post che ha spinto questa riflessione

Ma quando ho letto sulla pagina Facebook della Pro Loco Taviano – su cui l’articolo è stato condiviso – il commento sarcastico di Cristina Clitolde “Sono boschi, che cosa devono diventare? Il parco sotto casa con le panchine?”, ho pensato che sarebbe stato un peccato non dare il giusto rilievo a tanta acuta osservazione. Anche perché la citata Cristina non è la sola a pensarla così.

Chi vuol riportare indietro l’orologio

Va detto infatti che molti “ecologisti” vorrebbero riportare il calendario indietro di più di mille anni e cancellare tutto quanto l’uomo ha fatto da allora su questi monti: taglio ciclico del bosco (localmente chiamato “macchia”) con selezione delle varietà di piante più pregiate, impianti di magnifici castagneti, spianamento dei terreni ovunque possibile per ricavarne campi, terrazzamenti ingegnosi per trattenere ogni grammo di terra, regimentazione e pulizia dei fossi, apertura di strade e sentieri che portano ovunque, case sparse diventate via via borghi più o meno grandi, con orti a ridosso e, opportunamente localizzati, fabbricati rurali, mulini, seccatoi, ferriere, botteghe, laboratori, fabbriche, chiese, campanili e pur qualche castello. Tutte cose che non servono più, perché oggi la civiltà è altrove e l’uomo moderno l’ha rincorsa, scappando via dalla montagna alla prima occasione. Giusto le case reggono: le più ristrutturate, ora “seconde case” che neppure somigliano alle precedenti.

Lo spopolamento

Con giusta ragione i montanari hanno inseguito il progresso: perché su questi monti la vita era davvero dura e si cominciava a sperimentarla presto cominciando a lavorare da bambini. La fatica era infatti la colonna sonora di ogni giorno che accomunava uomini e donne ad ogni età. Carbonai e taglialegna dovevano poi emigrare stagionalmente; li aspettava una vita d’inferno (resa magistralmente in ottave nel canto “il lamento de carbonaio”) ed un ritorno spesso in compagnia della malaria. È facile quindi capire perché la popolazione sull’intero Appennino tosco-emiliano si sia drasticamente ridotta negli ultimi cento anni. Cito, a solo titolo d’esempio, i dati del Comune di Sambuca Pistoiese: gli abitanti passano dai 7.167 del censimento 1911 ai 1.680 del 2011. Per non mettere poi sempre in croce il più derelitto dei Comuni montani, basterà prendere i dati di località baciate dalla buona sorte del turismo, quali Abetone e Cutigliano: presi insieme contavano, nel censimento del 1951, 3.515 abitanti mentre alla vigilia della loro unione – avvenuta col 1° gennaio 2017 – i residenti risultano 2.084.

Il degrado del territorio

All’abbandono degli abitanti è seguito, inarrestabile, il degrado del territorio. Prima sono scomparsi i campi, i bei castagni secolari sono ridotti a scheletri contornati da polloni, le piante nelle macchie vengon giù da sole non appena l’altezza raggiunta entra in conflitto con l’equilibrio statico consentito dal pendìo. Quanto ai muri a secco, costruiti con tanta sapienza che non basterebbero altri cent’anni per minarne l’integrità, ci pensano i cinghiali a buttarli per aria non appena sentono radice o verme che alloggia lì per caso; al pari di ogni tratto di terreno intorno: dove gli stessi zannuti affondano il grifo non nasce più fragola né fungo. Ovunque solchi profondi, sassi smossi, ramaglie a terra marcescenti. Appena piove un disastro: spuntano rivoli d’acqua dappertutto già color della terra cinque minuti dopo; che dire poi dei fossi, intasati all’inverosimile, che portano giù a valle di tutto.

Dove finisce l’acqua piena di detriti

Ma dove andrà a finire poi tutta quest’acqua piena di ogni sorta di detrito? Chiunque vede d’estate i torrenti e fiumi sui nostri monti, farà difficoltà ad immaginare come possano trasformarsi in tutta fretta quando comincia a piovere sul serio. La stessa Cristina Clitolde che frequenta Taviano avrà visto lì correre la poca acqua del Limentra ed anche il Reno che più a valle accoglie lo stesso Limentra non brilla certa per la sua portata. Ma basterebbe ricordare le infinite pagine di cronaca locale che Il Resto del Carlino riserva alle ansie e spesso ai guai portati dalle piene del Reno già in vista di Bologna, per non parlare della Bassa dove accoglie altri torrentelli stizzosi quali il Lavino, il Samoggia e il Savena solo per citarne alcuni.

I fiumi che fanno paura

Molto meglio le panchine, sulle quali fermarsi a pensare prima di parlare. In particolare se si abita dalle parti di Bologna. Ma ciò vale anche per gli abitanti del versante toscano, della piana di Pistoia fino a Lucca, per quelli s’intende che agognano foreste amazzoniche su questi monti: Lima e Serchio tanto per citarne due quando dicono di fare sul serio non sono certo da meno del Reno. Lasciando in pace quell’Ombrone che a Pistoia si fa perfino fatica a vedere dov’è e che quando s’imbestialisce fa paura, benché la sua portata sia niente rispetto all’Arno dove va a confluire. Dell’Arno poi è meglio tacere, perché l’alluvione del 1966 è ancora tragicamente negli occhi di tutti.

 


La Redazione

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