Vivere in montagna è drammaticamente splendido, è una sfida culturale e antropologica che può capire solo chi ha deciso di intraprenderla. Non servono analisi psicologiche, sociologiche o altre diavolerie ermeneutiche; ci si sta, e basta! Abbrancati alle nostre rocce, come i figli di Aci Trezza, di verghiana memoria.
Sì alle regole sì, no al “regolismo”
Però una considerazione circa le ulteriori difficoltà che regole varie, spesso fatte altrove, hanno arrecato ai montanini negli ultimi 50 anni, le potrò pur fare, senza irritare l’ipocrisia dominante. Le regole sono sempre frutto di sintesi, di una mediazione culturale, di un paziente e intelligente lavorio delle parti in commedia, ognuna delle quali dà voce alle proprie esigenze vitali.
Ma quando esiste una monocultura dominante, fondata su un brodo male assortito di “metropolismo”, virtualità deformante, ambientalismo sguaiato e autoreferenziale (che protegge la talpa cieca, il lupo e non il positivo insistere antropico a difesa del territorio montano),il “regolismo” a tutti i costi, maturato dietro scrivanie asettiche e la voce dei montanini, quella antica del buon senso, della tradizione e dei saperi rimane confinata in inascoltate “riserve indiane”, la via è segnata. E la spietata legge dei numeri non lascia scampo alcuno.
La mancanza di coscienze illuminate
La montagna si va spopolando e chi rimane fa ormai parte di una minoranza “etnica” e culturale, senza voce e rappresentatività. Il problema è solo quello di mancanza di osmosi culturale? Di una sintesi sapiente? O mancano semplicemente coscienze illuminate, politici e amministratori intelligenti che sappiano guardare un po’ più in là del proprio naso o delle piccole alchimie di auto sopravvivenza. E, ancor di più, manca la volontà e l’umiltà dell’ascolto reciproco, che rappresenta un valore non sociale, non politico, ma etico e soprattutto morale.