Nelle feste e sagre paesane della nostra montagna, anche in periodo estivo e non solo in autunno e inverno, non è certo difficile trovare, fra i piatti più tipici, i necci. Magari non più fatti come una volta, come si spiega qui sotto, ma sempre gustosi e offerti in diverse combinazioni, dolci e salate. Per questo, proprio in questi giorni, nella rubrica dedicata al significato delle parole, abbiamo deciso di dar spazio al neccio.
NECCIO – Da tempo immemorabile i necci sono stati alla base dell’alimentazione nella nostra montagna. E questo è noto. Ma forse non tutti sanno che anche la parola “neccio” è delle nostre parti. Etimologicamente è più che probabile la derivazione da un aggettivo medievale castanicius ,cioè “relativo al castagno”, da cui la forma lucchese “castagniccio” e quella a noi più nota “castagnaccio”. “Neccio” ne sarebbe , quindi, una sorta di abbreviazione e confermerebbe questa ipotesi un testo di un autore fiorentino del 1700 che fa riferimento alla “farina castaniccia”, il prodotto della macinazione delle castagne secche,cioè la risorsa alimentare indispensabile alla vita dei montanini.
Se il nome non ha subito variazioni nel tempo, è del tutto cambiato il metodo di fare i necci. Gli antichi testi di pietra riscaldati al fuoco del caminetto, le foglie secche di castagno che racchiudevano l’impasto di farina dolce acqua e sale e le testaiole su cui si impilavano sono stati progressivamente sostituiti da piastre di ferro battuto dotate di lunghi manici, di certo più pratiche in quanto utilizzabili ovunque: è sufficiente disporre di un piccolo fornello a gas su cui riscaldarle. Però, che differenza. Il neccio dei nostri avi era, per così dire, cullato nella cottura dalle foglie di castagno e di esse conservava impressa la trama (quasi un sigillo di autenticità!), nonché il sapore e l’aroma. Quelli che si fanno oggi sono, invece, più “anonimi” nel loro aspetto liscio e da essi non si effonde la fragranza delle selve.