Troppo spesso si dimentica il senso originario delle parole, il loro valore più profondo e, in ultima analisi, anche la loro anima.
Succede per ignoranza o per superficialità culturale o, più semplicemente, perché si guarda da un’altra parte.
Il verbo coltivare, ad esempio, deriva dal latino colo-ere e come primo significato valeva “aver cura” (della terra e delle piante) e poi quello di “abitare, frequentare”.
E’ a questo senso più nobile e più completo che noi dobbiamo guardare quando pensiamo alla coltivazione.
Siamo ormai arrivati all’era dei disastri ecologici, delle alluvioni che sconvolgono e impoveriscono le colline, le pianure e conseguentemente anche gli abitati urbani.
Le cause e le responsabilità
Le cause sono stratificate nel tempo e sono dovute ad uno sviluppo incontrollato e becero, ad una cementificazione selvaggia, all’inurbamento sconsiderato, alle sirene dell’industrializzazione e della globalizzazione, alla miopia di intere generazioni di politici e di intellettuali e infine all’abbandono delle montagne.
Il risultato è che abbiamo un territorio dissestato, votato all’incuria ed al disinteresse e in mano ad un’ideologia dell’ambiente che si è completamente distaccata dalla realtà effettuale e che ci fa credere che gli animali contino più degli esseri umani, che i boschi debbano essere lasciati a loro stessi e che coltivare significa alterare gli equilibri ambientali.
Le alluvioni di queste settimane vengono documentate dai mass media come momenti apicali dei cambiamenti climatici, come fenomeni epocali, irreversibili e a cui dovremo abituarci. Silenzio assoluto, invece, su alcune cause più profonde. Nessuno nega che il clima sia cambiato e che le precipitazioni siano più intense e concentrate, ma, a ben guardare, siamo di fronte ad una grande stagione di ipocrisia collettiva
Curare la montagna significa proteggere le città
Sono ormai molti anni che da queste pagine denunciamo il triste fenomeno dell’abbandono e dell’incuria delle terre alte e dei catastrofici effetti che ciò produrrà in un futuro ormai prossimo. In questi ultimi giorni anche Marco Bussone, il Presidente nazionale dell’UNCEM (Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani), ha detto che se la montagna è abbandonata scende a valle sotto forma di frane, alluvioni e via dicendo, perché l’incuria generalizzata e la mancanza di pratiche colturali tradizionali fanno sì che le acque meteoriche scendano a valle senza trovare ostacoli e con una violenza inaudita.
I boschi cedui stanno ormai invecchiando e sostengono sempre più a fatica il terreno, i reticoli idrici minori non sono più manutenuti e l’agricoltura di montagna è quasi sparita. Si pensi che negli ultimi 20 anni 320.000 aziende agricole hanno chiuso definitivamente l’attività (Fonte: Coldiretti) e questo significa che 2,2 milioni di ettari di territorio sono stati abbandonati a se stessi con gravi ricadute su tutto l’ecosistema e sul paesaggio culturale del nostro Paese.
La chiusura di quelle aziende corrisponde anche ad un’altrettanta perdita di presidi territoriali che in autunno contribuirebbero a mitigare gli effetti di piogge intense e in estate il persistente e grave fenomeno degli incendi boschivi.
A poco servono le pietose ricette adottate da alcune amministrazioni regionali che cercano di incentivare le figure dei “contadini-custodi della montagna”; qui occorre una potente inversione culturale che faccia capire che montagna e pianura sono un unicum e che l’abbandono dell’una crea gravi problemi anche all’altra.
Se non si capisce questo, ogni altra contromisura ai cambiamenti climatici sarà solo un continuo impecettare e un indulgere collettivo al vittimismo ed all’ipocrisia.