Esiste una fascia di monte dove, un tempo, sembravano essere stati sparpagliati a sommo studio i poderi. Stavano sull’uscio dei boschi, quelle case. Oltre, erano radure, campi e brughiere tenute pulite e ricche di biodiversità dalle bestie al pascolo e dall’andirivieni di cani e pastori.
Il podere Fatini
Fatini era uno di quei poderi: soltanto uno della dozzina che stavano di qua e di là dal torrente Verdiana, nell’alta montagna pistoiese. Erano tutti fisicamente isolati tra loro, ma accomunati dalla solidarietà quando essa nasce dal bisogno comune di cavarsela e di domare una Natura tanto bella quanto selvatica.
Del podere Fatini e della famiglia, una di quelle grandi e numerose di un tempo, scrive Marcello Pagliai: uno degli ultimi che, ancora, può raccontare l’epopea del mondo pastorale e contadino di una zona che per ricavare un po’ di terra buona per semine e raccolti dovevi lottare duro e tenere bene a mente le dritte degli anziani e le leggi della montagna.
Il “ Bimbo di Fatini”
Il “ Bimbo di Fatini” è lui. E’ Marcello Pagliai, un uomo andato via dalle sue terre natie ma mai veramente partito. Questa sensazione si apprezza in pieno leggendo il suo libro, un testo edito da Heimat Edizioni e che, come afferma lo scrittore Sandro Campani nella prefazione, ha un che di “lenitivo”: non credo esista aggettivo migliore.
La cicatrici rimaste
“ Il Bimbo di Fatini” è una pezza calda su un dolore, quello prodotto da una ferita che, nel breve volgere di alcuni decenni, ha provocato un importante distacco tra uomo e ambiente. Una ferita che, come si è soliti dire in Chirurgia, si è si rimarginata ma per “ seconda intenzione”, ovvero lasciando cicatrici e cheloidi che altro non sono se non i resti dei poderi che furono: di Fatini rimangono solo le colonne portanti.
Malinconia, non patetica nostalgia
Marcello Pagliai, che in una di quelle grandi case ci ha vissuto fino a tredici anni di età, racconta di un tempo quando questa ferita non c’era e adesso che invece c’è la narra con una malinconia che non scade mai nella patetica nostalgia, bensì nel dare valore a una saggezza montana, popolare e contadina per cui ogni particolare del bosco o di un campo aveva il suo perché e meritava quindi il dovuto rispetto e misurato utilizzo.
Un libro semplice e onesto
E’ un libro semplice (ma mai banale) e onesto, quello del bimbo di Fatini: onesto perché, citando Giorgio Gaber quando cantava “La mia generazione ha perso”, non fa sconti nell’accusare chi non ha saputo preservare luoghi, culture, bellezze e stili di vita da un oblio che, senza per forza rinchiuderli in un museo, potevano invece essere tenuti in vita.
Le responsabilità? In primis di politiche pubbliche centrali che da anni hanno ormai declinato ogni interesse per le aree appenniniche interne, scoraggiando con mille intralci burocratici e non qualsiasi tentativo di sopravvivenza, di quelle vere, stanziali e non soltanto dirette a utilizzi turistici per una montagna da guardare come da dietro un vetro per due mesi l’ anno e poi ciao.
Gli studi e le competenze
Poteva infierire, Marcello, in questo libro. Ne avrebbe avuto anche le competenze: dal bimbo timido ma curioso, mammone e affezionatissimo alla sua ciuca, è poi scaturito un uomo laureatosi in Scienze Agrarie all’Università di Pisa per diventare, poi, ricercatore del CNR, Direttore dell’ Istituto Sperimentale per lo Studio e Difesa del Suolo per il Ministero dell’Agricoltura e molti altri prestigiosi incarichi.
Ne ha fatta, insomma, di strada quel bimbo avviatosi per viottoli giù da Fatini, scolaro imbarazzatissimo nel doversi mescolare con coetanei nella scuola elementare pluriclasse di Spignana.
Ha studiato, si è affermato, Marcello. Ma non ha dimenticato.
Il ritorno alle origini
Anzi, sfidando nostalgie e stanando ricordi, ora lievi, ora aspri, è voluto tornare a Fatini e dove “ieri” usava la zappa per “nettare il campo dai sassi” (una zappa a misura di bimbo, costruita apposta per lui da babbo Gelso…), oggi ha adoperato la penna per scrivere un libro che è monito, ringraziamento, emozioni, memorie, saggezze, viottoli e animali.
E vocaboli dimenticati, che già di per sé meriterebbero un secondo libro.
Parole come “ coppino, ribalta, caciaia, fuscelle, cantero, nettare i campi, corgo, traìno, fognare, tornare a sotto di sole e altre ancora…” Non sono soltanto vocaboli ma una vera e propria memoteca che se nessuno ad oggi riprende per i capelli andrà definitivamente persa.
Come il podere di Fatini, oggi ridotto a due mozziconi di colonne che sembrano imprecare contro il cielo la dabbenaggine degli uomini.