Soffro di insonnia. Ormai, non ci faccio nemmeno più caso.
Mi capita, spesso, in queste lunghe notti di inverno di ripensare a qualche amico che, com’è di moda dire ora, è andato “oltre”.
I primi di gennaio sono sempre stati, per me, i giorni buoni per il cambio del libro di vetta sul Balzo Nero.
Lassù, tanti i ricordi.
Le prime arrampicate negli anni ’80
Alla fine degli anni ottanta cominciai ad andare su quello e altri crinali, specie apuani, insieme a un tizio che, per amore, aveva lasciato le sue terre natie, in Abruzzo, per trasferirsi a bordo della sua raffazzonata 132 color fegato a Lucchio e prendervi residenza.
Faceva il boscaiolo, ma ad onor del vero sapeva fare qualsiasi cosa avesse a che fare con cemento, legno, terra, animali, ferro, acqua, elettricità…
E pietre.
A modo suo, ma sapeva anche arrampicare. Scrivo a modo suo perché aveva una tecnica tutta particolare e mentre chi arrampica con stile sembra che ci nuoti sui bastioni di roccia, lui, li abbrancava con un fare che pareva se la volesse portare a casa, la montagna.
A volte, ho creduto che l’abbia davvero fatto.
Anzi, mi correggo: è cosa accaduta e chissà se in casa la moglie serba ancora un sasso che al Silvio speleologo nelle profondità dell’Abisso Farolfi, nel ventre delle Apuane, parve adatto come arredo da mettere in salotto: un oggettino di venti chili e passa, non proprio una scaglietta di pietra.
La grande amicizia con “Silvione”
Ci conoscemmo, e seppure di caratteri diversi, facemmo amicizia. Il resto, poi, l’ha fatto la montagna e certe avventure nelle quali San Bernardo, santo patrono dei montanari e dei (quasi) alpinisti, deve aver messo la mano a protezione delle nostre teste in più di una circostanza se sono qui a scrivere di Silvio e me. Purtroppo, posso scriverne solo io…
Silvio: si chiamava così, il mio miglior amico di crinale. Per tutti, data la stazza e quel suo modo di parlare alto, solenne e così buffo nel suo mescolare un po’ di abruzzese e tracce di toscano “Silvione”.
Quella volta nel 1990 al Balzo Nero
Un anno, credo si sia stato il 1990, sul Balzo Nero ci andai proprio con Silvio: mi credete se vi dico che ancora oggi mi chiedo da dove siamo saliti e chi ci ha protetto?
Non andammo su per il sentiero, non per la Via Scappi e nemmeno lungo la crestina del Balzo dei Colombi. Salimmo si, ma a diritto.
“ Federì, de qua se va su bene. Fidate”
“ Non mi pare proprio la via più facile” risposi.
“ Se passa de lì, se cala giù e, dopo quel pilone, lo vedi il pilone che te sto a indica…? Lo vedi, si? Dopo quello se taglia a mezza costa e semo già in cima”
Rimasi zitto. Capì, Silvio, che non ero affatto convinto e che per seguirlo avrei dovuto attingere un po’, alla sua, di convinzione.
Se non ricordo male, quei bastioni di roccia che prendemmo su a diritto si chiamano i “Campaniletti del Balzo Nero”. Non so in quanti saranno mai passati su quei giganti di pietra che a vederli da lontano sembrano monoliti indistruttibili e quando invece sei lì è tutto uno sfasciume e ogni pietra, una volta afferrata, si sfila via dalla montagna come il cassetto di un vecchio mettitutto.
Poche decine di metri ed ecco che Silvio, l’avevo già perso di vista. Non avevamo imbracature, chiodi e tantomeno una corda che, bene o male, potesse indicarmi dove fosse passato quel caprone di Silvio. Incoscienza giovanile? Beh, si.
A un tratto… un grido “ Federì, non te move de lì, aspetta un po’”
“Eccoci”, pensai, “ Siamo nella merda. Da qui ci tiran via solo con l’elicottero”.
Si, ma come lo chiamavi un elisoccorso nel 1990? A voce? Lo chiamavano, familiari e amici, al mancato rientro a sera inoltrata. Spesso, il giorno seguente.
Nel silenzio infranto dal sibilo del vento, riecco la voce di Silvio…
“ Federì, ce stai?”
E dove vuoi che sia stramaledetto caprone di monte che ti voglio un bene dell’anima ma vorrei sapere che cazzo di idea balzana mi ha portato fin qui, avvinghiato a uno sperone di roccia…
“ Siiiii” urlai
“ Sta a sentì a Silvione. Me sa che s’è fatto na mezza cazzata ma ormai se vede la testa del monte e nun se po’ fa diversamente. Vado su io, te non me seguì subito. Per capì da ndo passo, guarda tra li sassi: se vedi un po’ de cenere e qualche cicca, sei sulla strada giusta”
Obbedì. Che altro potevo fare?
Rimasi fermo per una mezz’ora. Convivevo quei minuti con il terrore di vedere venir giù l’amico: in tal caso, zero possibilità di scampo.
Trenta minuti mi sembrarono un tempo oltre il quale non potevo più attendere: tremavo di freddo, e forse anche di qualcos’altro.
Iniziai a salire e man mano che andavo su scorgevo dei mucchietti di cenere infilati tra le rocce e dei mozziconi di cicca: ero sulla strada “giusta”( si, tanto… così per dire….).
Arrivai sulla cresta del Balzo Nero, grosso modo dove adesso c’è una piccola statuetta della Madonna, poco prima della fessa.
Silvio era già lì da un po’ e se ne stava beato a smangiucchiare un panino.
“ Federì” mi disse “ Come se chiama sto pezzo de monte che abbiam fatto?”
“ La via della cenere e delle cicche” gli risposi.
Ne avevo raccolte quattro. Mi domando, ancora oggi, come abbia fatto a tenersi aggrappato alla roccia e, nel contempo, fumare. Forse, lo fece anche per me. Per indicarmi la via: intuì che, diversamente, non ce l’avrei fatta.
Si cementò lassù, in un giorno assolato di gennaio, l’amicizia con “Silvione”: l’unico alpinista al mondo che arrampicava con la forza di un toro, l’istinto di uno stambecco, i jeans Rifle, il casco giallo da operaio edile in testa e le scarpe anti-infortunistica con la punta di metallo e la suola della peggior plastica disponibile sul mercato.
Il resto erano cenere e cicche.
Quelle che ancora, di tanto in tanto, mi capita inconsciamente di cercare quando vado per certi crinali.
Ovunque sia, Silvione è sempre stato il più forte, onesto e semplice: un montanaro, vero.
E un amico.
Fede Pagliai.
Alla vigilia del 33 esimo cambio del libro di vetta del Balzo Nero.