Anche in un anno come questo 2020, così drammatico ed incerto, anzi… soprattutto in questo momento… c’è bisogno di Poesia.
L’autrice
Giulia Venturi è nata a Firenze l’11 agosto del 1993 ed è cresciuta a Orsigna, un piccolo paese dell’Appennino Tosco-Emiliano.
Ha conseguito la laurea triennale in Lettere (curriculum moderno) a Firenze nel 2016 e la laurea magistrale in Italianistica, culture letterarie europee e scienze linguistiche presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna nel 2018, con una tesi dal titolo “La poesia pensa: il discorso metapoetico nelle opere di Piero Bigongiari”.
Da sempre appassionata di arte e letteratura ha coltivato negli anni una grande passione per la poesia contemporanea, che l’ha condotta alla pubblicazione della sua prima opera dal titolo La sistematica incertezza, storie di quasi vent’anni di ventesimo secolo con la casa editrice Oedipus, nel novembre 2020
La sistematica incertezza, storie di quasi vent’anni di ventesimo secolo
La silloge di poesie, attraverso l’esperienza personale dell’autrice, racconta alcune vicende che appartengono, come suggerisce il sottotitolo, a questi quasi Vent’anni di Ventunesimo secolo; l’intento è quello di dialogare con la modernità attraverso la lirica, in un continuo scontro dal retrogusto amaro fra presente e passato.
Lo stile di questi componimenti è crudo e prosastico, a tratti dimesso con il fine di suscitare una maggiore aderenza della parola alla realtà disastrosa e incerta che si intende descrivere e sviscerare nel profondo.
L’opera è divisa in sottosezioni che affrontano tematiche diverse e attuali: dal disastro ambientale alla perdita degli affetti, mostrata attraverso la narrazione degli strani meccanismi che definiscono i rapporti umani odierni prevalentemente vissuti in modo virtuale; dalle relazioni infelici, caratterizzate da un’aridità profonda, alla condizione difficile e umiliante della donna nella società contemporanea, che si rivela esausta da anni di lotte e sopraffazioni, confusa, adulata e tradita da una società consumistica e arrivista in cui non c’è più tempo per amarsi.
Soltanto l’ultima sezione apre uno squarcio di speranza in questa immensa desolazione: il respiro della natura, della bellezza, della memoria storica e personale si contrappone in tutta la sua purezza alla contingenza instabile che caratterizza questo ventunesimo secolo vuoto di ideali e di passioni.
Ecco che allora nell’ultima poesia la luna si manifesta, con la forza del suo splendido candore, sopra l’insegna dell’Ins, come un amuleto a cui tendere le braccia per sollevarsi dall’oscurità di questa sistematica incertezza che corrode il mondo moderno, rendendolo spesso sterile e privo di umanità.
Poesie estratte dal libro
Gli scrosci d’acqua
mi sciolgono il dolore sulla schiena:
il bagliore accecante del fiume
il rumore roboante dell’acqua
ancora lontano fino alla sorgente,
fino al niente. Il sole sulla tempia destra
e il ghiaccio che preme sulla finestra
scolpito per incorniciare le pietre,
levigato da una mano invisibile
che rende visibile la bellezza che
siamo impegnati da molto
a non vedere. Con gli occhi sulla tv
o sullo schermo del pc ci siamo scordati
dell’infinito (o lo abbiamo gettato
nel telefono) e adesso che sento che mi manchi
dal tuo ultimo accesso definisco
il decesso della mia capacità di amare.
E mi dispiace se adesso non trovo
interezza in un gesto, ma vedi
le montagne sono svestite di neve
e il senso di colpa non può, non deve
essere lieve, è ambasciatore
della ragione che non mi fa godere
del paesaggio montano, perché è insano,
ci percepisco il male, mi duole la mano
se accarezzo la corteccia e sono infelice.
Eppure si dice il tempo cancella tutto:
per esempio a me ha cancellato la neve
dalle pendici e adesso
non so se è Inverno.
***
Ho un tarlo che mi ottunde il coraggio mi esplode
la notte nel petto, mi calma il tic toc
della pioggia sul tetto, ma torna,
picchiotta le tempie, tuona e frantuma
il silenzio, mi getta nel buio
più buio del sonno, violento non tace
e sussurra all’orecchio,
tampona il tempo, trema alla lampada
che gracchia luce fioca, ma è poca.
Io versifico e diversifico
le mie colpe dalle tue colpe,
ma un colpo mi buca la gola e mi avverte
che c’è solo il vuoto fra le coperte
anche se la luce sottile filtra
dalle finestre socchiuse la ignoro
anche se è l’ora di alzarsi la ignoro
perché voglio gozzovigliare il dolore
che sanguina ultrasonoro dalle foto
d’infanzia attaccate nella stanza.
Lo sai che non era la soluzione
era una situazione in cui dovevi
stringermi ancora più forte la mano
invece l’hai ritratta trattenendoti
forse perché sono matta o inadatta
a tutte quelle cose di cui non mi importa.
Intanto respiro male sul cuscino,
con il ritmo che detta il sospetto
di aver perso qualcosa mi alzo di scatto,
premo la testa sulla testata del letto
prima di trovarmi imbrattata dalla nebbia
di un gelido gennaio, incoronata
dai portici della turrita Bologna,
costretta in cappotto brutto, rotto
che sfiderà anche oggi il freddo proprio oggi
che volevo lasciarti andare proprio oggi
fa troppo freddo per lasciarti andare.