Chissà cosa diranno, alla fine di questa buriana “virale”, economisti, politici, banchieri, finanzieri, burocrati indigeni ed europei, industriali e via dicendo.
Sosterranno ancora, come fossero totem, la regola dello Spread, la legge indiscutibile del Mercato, la globalizzazione spinta, un’economia esclusivamente monetaria, i tagli indifferenziati anche in settori nevralgici, il P.I.L disgiunto dall’etica e dalla felicità individuale e collettiva, la delocalizzazione, l’abbandono dei territori marginali, la concentrazione metropolitana, l’approvvigionamento extranazionale perché consente risparmi?
Forse, usciti dal pericolo, riprenderemo con più foga la vita di sempre. Auguriamoci di no, perché stiamo tutti vivendo e consumando sopra ogni limite tollerabile e ragionevole.
Un po’ di sano buonsenso
Speriamo che il Coronavirus sia, in questo senso, un grande maestro. In molte occasioni bisognerebbe ricorrere al buon senso contadino che ci darebbe consigli preziosi e più indolori.
Intanto, avrebbe detto mio nonno, chi semina cavoli deve sapere che raccoglierà cavoli: poi ogni orto familiare che si rispetti deve contenere una eterogeneità di verdure a maturazione scalare; infine quando si potano olivi, viti e alberi da frutto bisogna guardare al futuro e non solo al presente.
Tradotto in termini socio-politico-economici, mi sembra che fino ad oggi il nostro Paese, per non parlare dell’ordine mondiale, abbia navigato a vista, brandendo un unico stendardo, il denaro, e che i manovratori dell’economia nazionale e mondiale non sappiano o non vogliano guardare oltre un orizzonte limitatissimo.
Per dirla in termini letterari, siamo l’esatto contrario degli eretici che Dante descrive nel canto X dell’Inferno, i quali conoscevano il futuro ma ignoravano il presente.
Infatti sembra che oggi siamo condannati ad una forma generalizzata di grave miopia collettiva e che solo una potente correzione di rotta possa condurre l’intera umanità verso approdi più sicuri.
Cosa ci ha insegnato il Coronavirus
A noi Italici, eredi di Romolo, di tanti altri re, ma anche di spietati feudatari e avventurieri, il Coronavirus avrebbe dato insegnamenti importanti, ammesso che li vogliamo raccogliere.
Intanto, in caso di grave emergenza, si è appurato che ogni nazione pensa prima alla propria gente; poi che è improvvido depredare settori strategici, come sanità, scuola, ricerca e agricoltura in nome di un risparmio alla lunga fittizio; inoltre che occorre ristabilire un equilibrio tra esterofilia e nazionalità, irrobustendo ad esempio un’economia di prossimità, nel senso che più si produce in filiere corte e cortissime, più si riducono i problemi che ammorbano la nostra salute, come l’inquinamento, lo sperpero energetico, l’insalubrità dell’aria e dell’acqua, il dissesto idrogeologico; infine che dobbiamo ridurre le nostre pretese ritornando a comportamenti collettivi e individuali più parchi.
In parole povere, questo modello di sviluppo insostenibile ci sta conducendo, di emergenza in emergenza, verso un precipizio, che non è tanto la distruzione del pianeta, il quale ha la capacità e il tempo per rigenerarsi, quanto verso una sempre più precaria presenza umana sulla Terra.
Due voci dal passato
Noi viviamo in una nazione tradizionalmente dotata di grandi ricchezze.
Già Strabone (geografo e storico greco vissuto nel I secolo a.C.) ne tesseva le lodi, dicendo , tra l’altro che “… non c’è parte di questo paese che non si trovi a godere dei vantaggi della montagna e di quelli della pianura, nonché della fertilità del suolo e dell’abbondanza delle acque..”.
Ma d’altro canto Columella (agronomo latino del I secolo d.C.) lamentava la miopia di certe scelte politiche che conducevano il popolo romano ad un inurbamento selvaggio: ”Noi siamo venuti a pigiarci e a restringerci tra le mura delle città dove ci diamo un gran da fare a muovere le mani nei teatri e nei circhi invece che tra le vigne e i campi… Consumiamo le notti tra vizi e bagordi, i giorni tra il gioco e il sonno… Naturalmente le malattie sono il corteggio di questa stupida vita..”.
In quei tempi, però, l’ambiente si manteneva sostanzialmente integro e l’inquinamento era di tipo biologico e limitato alle sole aree metropolitane, non generalizzato come ai nostri tempi.
Una ricetta per il futuro: valorizzare montagna e aree marginali
I danni che stiamo arrecando all’ambiente (l’inquinamento di aria e acqua, il consumo di suolo, la minaccia a specie animali e vegetali , la distruzione di interi ecosistemi ecc) hanno un comune denominatore nell’interpretazione distorta e univoca dell’ economia, (termine che etimologicamente significa invece“regolamentazione e cura della casa comune” ), una scienza (?) che imporrebbe dunque un attento rispetto di tutto ciò che ci circonda, persone e cose, e che abbiamo asservito esclusivamente al business.
Ora è difficile uscire dal cul de sac in cui ci siamo cacciati e intraprendere percorsi ecologicamente virtuosi, anche perché dovremmo rinunciare ad abitudini inveterate che riteniamo ormai parte della nostra vita.
Però scienza e tecnologia potrebbero aiutarci a trovare soluzioni adeguate (il telelavoro è una di queste) ma prima di tutto ci vuole una presa di coscienza a livello nazionale e planetario che induca a voltare pagina e a perseguire un modello di sviluppo ecocompatibile che in molti già auspicano.
Nuova vita per campagne, colline e montagne
Ho accennato poco sopra all’esigenza di sviluppare un’economia di prossimità, secondo cui produzione e consumo abbiano distanze ridottissime e che contempli la valorizzazione dei territori marginali e del paesaggio come strumenti economici reali.
Le nostre campagne, le colline e le montagne potrebbero vivere una nuova vita ripopolandosi e facendo riscoprire strutture e valori ancestrali dimenticati, culture non omologate e da ultimo il volto più umano e più felice dell’esistenza. Del resto, alla fine dell’Impero romano, è già successo che le aree marginali abbiano “ospitato” e dato il pane a stuoli di gente in fuga da città impoverite e minacciate!
Le virtù naturali del Belpaese
Ci sono nel nostro Belpaese immensi campi fertili da coltivare, senza dover importare prodotti di dubbia provenienza e salutarità, ci sono tanti boschi da riportare ad un’antica bellezza capace di rigenerare spirito e membra, ci sono mari, laghi, fiumi da risanare e da rivisitare, senza bisogno di recarsi in luoghi esotici alla moda nei quali, intorno a villaggi turistici di ogni sfizio, ci sono spesso povertà e miseria disumane di cui doversi vergognare.
Allora investendo risorse nella prossimità e formando intelligenze naturali (più che quelle artificiali) su un uso sapiente e rispettoso degli ecosistemi, si creerebbero tanti posti di lavoro e nel contempo restituiremmo dignità ed equilibrio all’economia, rendendola finalmente degna del suo significato originario.
Sembra, infine, che il Coronavirus un piccolo miracolo (si fa per dire) l’abbia fatto, cioè quello di far emergere la solidarietà e l’orgoglio nazionale, ma ce ne attendiamo un altro: cambiare una società perennemente adolescenziale in un popolo maturo e cosciente delle proprie scelte.