Durante questi lunghi mesi invernali, prima dell’avvento della televisione, che per certi versi ha reso l’uomo un asociale inchiodato alla poltrona di casa, s’andava a veglia. Era una specie di rito che aggregava le famiglie. Intorno al foco si raccontavano fatti quotidiani, storie vere o inventate, aneddoti e si confidavano pene, gioie e progetti di vita, in un’atmosfera di complicità semplice e intensa. Lo sfriggolìo della legna che bruciava nel caminetto o il calore morbido della stufa facevano da testimoni ad un parlare fragile, quasi sussurrato e intercalato da lunghi silenzi.
Momenti magici
Molti come me, ahimè non più tanto giovani, ricordano senza alcun dubbio quei momenti magici che avevano un che di religioso; si ripetevano i gesti e i detti dei padri cosicché il presente e il passato diventavano una cosa sola e costituivano le nostre radici.
Non mi scordo delle lunghe sere invernali quando andavamo a veglia dalla Checca, la moglie del mugnaio di Taviano, e mentre lei faceva i necci per il giorno dopo, ci diceva di quello e di quell’altro, della farina dolce, com’era venuta, o di come stava andando la stagione, con una voce calda, serena che poche altre volte ho udito nella mia vita. In quella cucina dai muri affumicati si incontravano non solo persone, ma anime intente a raccontarsi.
La parola deriva dal latino vigilia
E non è blasfema l’allusione alla religiosià di quei momenti, perché la parola “veglia” deriva dal latino vigilia e significava lo “stare svegli”, anche nelle sere che precedevano una particolare solennità sacra. Erano le cosiddette “veglie” di preghiera.