In cucina non nascono solo piatti gustosi di cui noi italiani siamo particolarmente ghiotti; i fornelli ”producono” anche parole che usiamo quotidianamente senza, forse, conoscerne l’origine e la storia. Prendiamone tre a caso: Fegato, infinocchiare e polendone.
Il Fegato ingrassato
Il termine “fegato” indica, com’è noto,un importante organo del corpo umano e animale che svolge una funzione fondamentale per la vita; ma quei bontemponi dei nostri antenati Romani, e dei Greci prima di loro, gli avevano riservato una sorte diversa. In latino “fegato” si diceva iecur. Niente quindi di più diverso dalla parola italiana, ma era consuetudine ingrassare con lauti pasti a base di fichi alcuni animali, specialmente le oche, in modo tale che il loro fegato ingrossava a dismisura e acquistava, in cucina, una sapore particolarmente delicato, almeno a detta degli eredi di Romolo.
Nelle mense veniva quindi imbandito il ficatum iecur, cioè il “fegato ingrassato coi fichi”. L’uso continuo di questa espressione gastronomica ne ha determinato col tempo una forte semplificazione ed è sopravvissuto solo l’aggettivo ficatum, che è diventato un sostantivo, trasformandosi in “fegato”.
Un procedimento di questo tipo non è estraneo alle lingue neolatine e quindi anche all’italiano, dove alcune parole, in origine aggettivi, si sono trasformate nell’uso quotidiano in nomi comuni; ad esempio di “ufficiale generale” è rimasto solo “generale”, per indicare un’importante carica militare.
In conclusione la difficile parola latina iecur ha lasciato il posto al più semplice ficatum , anche se i fichi non c’entrerebbero nulla col fegato.
Infinocchiare: dal condimento all’inganno
Il verbo “infinocchiare” ha una storia meno complicata dal punto di vista morfologico (deriva dal sostantivo latino feniculum , “finocchio”) ma è curiosa la sua storia semantica. Il verbo italiano “infinocchiare” è un denominativo, deriva cioè da un nome e il nome è “finocchio”, la pianta usata in cucina per aromatizzare i cibi.
Originariamente “infinocchiare” voleva dire “distribuire grandi quantità di questa pianta” per esaltare il sapore delle carni. Però accadeva che nelle osterie degli osti particolarmente “birbi” facessero grande uso di aromi e spezie, e di finocchio in particolare, per mascherare le carni un po’ “passate”, per non dire quasi marce. Da questa abitudine poco “trasparente” è derivato il significato attuale di “ingannare qualcuno”, dargli, cioè, ad intendere ciò che non è, usando imbrogli e sotterfugi.
Polendone, ovvero molle come la polenta
Per “polendone” si deve risalire a “polenda”, una variante toscana di “polenta”, cioè l’impasto di acqua salata e farina di mais o castagne che, opportunamente cotto, ha nutrito generazioni di toscani e settentrionali in genere. “Polendone”, però è diventato sinonimo di persona lenta e goffa nei movimenti per una strana associazione di idee. Chiunque abbia cotto la polenda, avrà notato che è particolarmente molle, bolle quasi pigramente e sbuffa altrettanto pigramente; poi, quando viene scolata sul tagliere, scende densa, senza mostrare fretta. Proprio come fanno i pigri quando si muovono, magari trascinando i piedi.
Questa parola è entrata poi di diritto nel vocabolario del consueto campanilismo italiano; gli abitanti del Nord Italia hanno definito a lungo “terroni” i meridionali, mentre questi ultimi hanno risposto chiamando “polentoni”, cioè divoratori di polenta i loro avversari “nordici”.
Chi ci ha rimesso è stata la polenta. Che ingratitudine!!!