Per secoli la gente della nostra montagna è sopravvissuta grazie al castagno ed ai suoi prodotti e allora non vi era un luogo più indispensabile, e nel contempo più magico, del “metato”. Lì si seccavano le castagne, prima di portarle al molino, dove si trasformavano in farina dolce.
Il metato, parola che deriva dal latino medievale metatum , col significato di “abitacolo”, “rifugio”, era una piccola costruzione a due piani, separati dal canniccio, un palco di assi di legno assai ravvicinate e ricoperte di canne, su cui venivano stese le castagne per l’essiccazione. Al piano terra si accendeva il fuoco che doveva essere sorvegliato con frequenza, perché mantenesse un calore costante, né tale da arrostire le castagne, né del contrario.
La magìa di questo luogo, caldo e raccolto, stava nel fatto che la gente vi si riuniva a veglia e si raccontava storie di verità e di fantasia, intercalate ogni tanto dallo scoppiettio dei bachi delle castagne che cadevano sul braciere.
Nella Valle del Reno accadeva però che i ragazzi “scarellassero”, allorquando con delle pertiche allargavano i graticci, chiamati anche “carelle”, per far venir giù le castagne secche e mangiarsele alla chetichella, naturalmente quando il metato non era sorvegliato da nessuno.
Proprio in questi giorni nei metati il fuoco è acceso e le castagne stanno seccando a fuoco lento; questo ci deve riempire di gioia perché, con fatica, dei montanini volenterosi hanno raccolto il testimone dei nostri nonni e perché (diciamocelo pure!) la farina dolce sta diventando un bene economico interessante.