SAN MARCELLO – Non è esercizio retorico ricordare figure insolite, spesso trascurate o dimenticate, forse ritenute minori e non degne di attenzione. Non è nemmeno una commemorazione voler rammentare lo snodarsi o l’articolarsi della vita, in Montagna in altri tempi, ma in parte anche nel presente. È valutare come ci si guadagnava da vivere, attraverso il racconto di episodi riferiti direttamente da chi li ha vissuti, come Roberto Petrucci, deceduto di recente.
Non solo i più noti
Frequentemente sui giornali si trovano descritte le vite, le attività, i meriti dei più conosciuti, delle persone più note. Quelle di coloro che hanno ricoperto incarichi di rilievo, che hanno diretto aziende e attività, che hanno conseguito meriti sportivi, o compiuto gesti da ricordare, nel bene e nel male. Più raro è trovare la storia dei più semplici, di coloro che hanno operato e lavorato iniziando dalla più tenera età e continuando a farlo fino al giorno dell’addio, senza ricevere onori e riconoscimenti espliciti.
Il “Guaime”
Ho incontrato e conosciuto Roberto nel “Guaime” dove ha vissuto gli ultimi anni di vita, insieme a sua moglie Catia. Il Guaime è un sostantivo e un luogo montano dove sui prati, per definizione semantica, rinasce l’erba tenera dopo l’ultima falciatura e si può fare il fieno autunnale. Il Guaime è sulla Montagna Pistoiese, nella vallata del Monte Oppio, nel versante del torrente Limestre, affluente del Serchio.
Montagna fra differenze e similitudini
In Montagna Pistoiese c’è stata una lunga e dura discussione, protrattasi per quasi un trentennio, sulla possibilità di realizzare un comune unico fra quattro esistenti. Quando la discussione si fece più accesa da uno dei quattro comuni, Cutigliano, venne fatto osservare che non era possibile realizzarla perché esistevano “troppe differenze culturali fra i comuni montani”. Ne rimasi sorpreso. Fu risposto che si univano intere nazioni europee che addirittura si erano fatte la guerra da non molto. Come pensare allora a piccole, modeste, trascurabili “differenze culturali”? Parole che sono state un tarlo, un dubbio che mi ha accompagnato per parecchio tempo. Oggi è stata realizzata una fusione parziale. Abetone si è “fuso” con Cutigliano, San Marcello con Piteglio, invocando un principio di maggiore similitudine territoriale e culturale: due comuni di “alta” montagna, due di “media”.
La dura vita di montagna
Paragonando la vita vissuta da Roberto a quella degli abitanti dell’altro versante del Monte Oppio, quello adriatico, dove ha prosperato per cento anni un’industria importante che ha insegnato tanto a tanti in fatto di meccanica e non solo, il dubbio sulle differenze culturali è incredibilmente affiorato di nuovo. La bellissima storia di Roberto, e quella di sua moglie Catia, mi ha colpito perché è esemplare della vita della Montagna Pistoiese. Una storia del passato e del presente che spiega la fede incrollabile nei valori della terra e del lavoro manuale. Capace di spiegare il trascorso di moltissime persone che sui monti dell’Appennino, non hanno avuto una vita né comoda né semplice, ma fatta di duro lavoro eseguito con orari lunghissimi, particolarmente nel periodo estivo, periodo in cui le giornate sono più lunghe.
Lunghe giornate di lavoro
“Giornate di lavoro – raccontava Roberto – a volte interminabili: dall’alba al tramonto”. Roberto era nato, nel 1939, al Melo, una piccola frazione del comune di Cutigliano, in località “Il Paradiso”, appena sotto l’attuale agriturismo “Le Roncacce”. “Non ho frequentato molto la scuola, dovevo lavorare. Mi rendo conto che sia una realtà difficile da spiegare ai giorni nostri – ci raccontava negli ultimi tempi -. A settembre iniziava la raccolta delle castagne e finché non si era finito non si poteva andare a scuola”. Nel 1946, all’età di 7 anni, il primo cambiamento: “La mia famiglia si trasferì in un podere a San Vito. Il podere, che si trovava in località Casa Luigi, nel comune di San Marcello, era di proprietà dell’Azienda Agraria di Limestre (Società creata dalla famiglia Orlando, proprietaria degli stabilimenti Smi) dove sono rimasto, come mezzadro, fino all’età di 23 anni”.
Il podere
Un podere vero. Così lo descriveva Petrucci: “Il podere era ben fornito di bestiame, vacche, pecore, cavalli e muli. La terra era fertile e rendeva molto. Si seminavano patate, grano, segale. Si campava alimentandosi con patate, castagne, animali da cortile, maiali e naturalmente col pane fatto in casa.” Periodi difficili. “Ricordo benissimo che quando ci trasferimmo a San Vito eravamo molto poveri – sono ancora parole sue -. Meno male che Salvatore Orlando, che aveva la stessa età di mio padre e si conoscevano, ci dette il podere a mezzadria attrezzato di tutto punto. Ci trovammo davvero bene (‘Come ogni vascello nel mare grosso, la montagna può essere…il perfetto luogo-rifugio di uomini straordinari, gente capace di opporsi all’impazzata monocultura del mondo contemporaneo’, ci ricorda Paolo Rumiz…’)”.
Le cave e il Copit
Poi un nuovo cambiamento. “Lasciato il podere sono andato a lavorare alle Cave Tana di Martinelli e Sabatini. Ci sono rimasto per 11 anni. In quel periodo la Società Cave Tana mi faceva lavorare come camionista alla costruzione dell’autostrada Firenze-Mare. Successivamente, terminato il lavoro sull’autostrada, ho avuto ‘il posto’ di autista al Copit. Ci sono rimasto per 20 anni ma nel frattempo, mentre facevo questi lavori, non ho mai abbandonato l’azienda agricola che ho seguito con mia moglie Catia”.
L’azienda agricola
Un’azienda che produceva con regole ben precise: “Noi, fra altro, produciamo formaggio a ‘latte crudo’ e ‘ricotta’, seguendo procedimenti molto particolari e rigorosi – ci spiegava Petrucci -. Le pecore vengono munte e subito dopo si procede a fare il formaggio. Uno dei segreti per ottenere un buon formaggio è di avere un ottimo latte, che si ottiene tenendo bene gli animali e alimentandoli con cibo genuino e naturale. Alle nostre pecore diamo solo prodotti dei nostri pascoli. Quando la stagione lo permette, le pecore le portiamo al pascolo. Quando invece stanno nella stalla le alimentiamo con biada da latte, composta da orzo e granturco che produciamo in proprio”.
Produrre buona farina
Non è né semplice né facile produrre una buona farina di grano o di farro per chi vive in queste zone perché richiede un percorso complesso e lungo. «Il grano – ci diceva ancora Roberto – lo portiamo a macinare in un mulino regolarmente autorizzato, a Rocca Corneta, nel comune di Lizzano in Belvedere, in provincia di Bologna, che dista da qui quasi 50 chilometri, mentre il farro prima lo portiamo a ‘decorticare’, cioè a toglierli il guscio, in località Villa Campanile, in provincia di Pisa e successivamente lo portiamo a macinare sempre a Lizzano in Belvedere. Prima di diventare farina il farro fa un viaggio, fra andata e ritorno di 150 chilometri”. Questi prodotti genuini venivano e vengono commercializzati in Montagna Pistoiese e altrove.
Roberto ci ha lasciati pochi giorni fa. Con Catia aveva festeggiato recentemente i cinquanta anni di matrimonio con una crociera, offerta da figli, nipoti, parenti ed anche da conoscenti.