“Italia dimenticata. Dal declino alla rinascita delle terre alte e remote” curato da Marco Breschi, Maurizio Ferrari, Gabriele Ruiu viene presentato, in anteprima, sabato 6 aprile 2024. Volutamente non in montagna ma nel centro della città che a quella montagna ha dato l’aggettivazione (“pistoiese”). L’appuntamento è alle ore 15.30 nella prestigiosa chiesa di San Giovanni Fuorcivitas, in pieno centro di Pistoia. Organizza un’associazione, composta da persone molto trasversali fra loro, dal nome evocativo (“Amici della politica”) presieduta da Luca Bernardi. Hanno dato i rispettivi patrocini sia il Comune di Pistoia che la Diocesi di Pistoia. Oltre ai curatori interverrà Marco Bussone, presidente nazionale di UNCEM (Unione Nazionale Comuni, Comunità Enti Montani). Il dibattito sarà introdotto da interventi programmati a cura di associazioni e realtà montane.
Un anno fa “Montagne vuote”, adesso “Italia dimenticata”. La coppia Breschi/Ferrari (docente universitario in Demografia il primo, docente in pensione, contadino e allevatore il secondo nonché presidente di “Amo la Montagna”) si è specializzata in volumi che raccontano terre alte e remote.
Le raccontano nella loro attuale condizione disperante ma senza perdere la speranza che qualcosa possa accadere, che il trend possa cambiare, che l’abbandono di oggi possa trasformarsi in nuova vita. In nuovi stili di vita. In nuove modalità di abitare il mondo. Spes contra spem.
Li accomuna, i due, l’amore per la loro terra. Il dove sono nati. Terra di montagna. Di Appennino. Di un Appennino che cuce due terre molto diverse: Toscana ed Emilia, Pistoia e Bologna. In un piccolo Comune di frontiera – Sambuca Pistoiese – dove in vista delle elezioni amministrative tutti fanno fatica a trovare un cireneo che voglia sobbarcarsi l’onore ma soprattutto l’onere di diventare sindaco.
Un anno fa il sottotitolo del volume curato da Marco Breschi e Maurizio Ferrari rimandava a una ricerca particolare “Homo Appenninicus”. Ricerca complicata. Far tornare vita in luoghi abbandonati (“in queste terre alte i giovani sono ormai rari e ancora troppo poche e disorganiche sono le iniziative per evitarne la fuga o consentirne la permanenza”).
Il sottotitolo del volume uscito in questo 2024 lega le evidenti ragioni del pessimismo con quelle di una speranza comunque non scontata (“Dal declino alla rinascita delle terre alte e remote”).
Un’opera collettiva e pluridisciplinare
Breschi e Ferrari, insieme a Gabriele Ruiu che di mestiere fa il docente universitario di Statistica, hanno dunque curato il nuovo libro. Un’opera collettiva, pluridisciplinare, complessa ma insieme semplice da leggere. Una decina di capitoli. A scriverli, oltre che loro, anche altri docenti universitari (economia, storia, statistica, diritto tributario).
Ne esce un puzzle con una caratteristica positiva: non mancano indicazioni concrete, operative, per aiutare quel salto (“dal declino alla rinascita”) che potrebbe essere possibile a condizione che un po’ tutti facessero il loro dovere: gli intellettuali, gli economisti, gli stessi cittadini, gli imprenditori. E in primis, sopra tutti o al di sotto di tutti, la Politica. Quella con la “P” maiuscola.
Quella che si trova davanti, in tutta Italia, a una questione gigantesca: che farne di quella enorme fascia di territorio (il libro riporta dati, cifre, numeri) che parte dalla Liguria e arriva fino alla Calabria per spingersi anche nelle due grandi isole, il territorio appenninico?
Terre di antico e dimenticato Appennino, ma in certi casi anche terre di una fascia alpina dove non in tutti posti – per usare la vecchia battuta di Mauro Corona – nevica firmato. Terre dove oggi è in atto “la più assurda delle eutanasie omissive” (non a caso entrambi i volumi si chiudono con queste drammatiche sei parole), ma che potrebbero, a determinate condizioni, risultare scenario per una rinascita capace di dare ossigeno non solo a loro (alle terre montane) ma all’intero Paese: alle sue pianure, alle sue fasce collinari, alle sue città.
Già perché – e questo è un legame comune in tutti i capitoli – il destino delle città è legato a quello dei monti retrostanti. Non c’è bisogno di troppe parole per capirlo. Ma il volume, nella sua intersettorialità scientifica, lo spiega, lo dimostra, lo conferma. Lo grida.
Una sintesi propositiva (8 pagine), firmata dai tre curatori, si incarica di aiutare i più pigri. Le proposte lì sintetizzate, e ritrovabili con maggiori dettagli nei capitoli precedenti, sono giustamente accompagnate da una battuta – assai realistica – con tanto di punto interrogativo (“vaneggiamenti?”).
E in effetti la risposta non può essere che positiva “se si continua a non investire nell’Italia dimenticata”, se non passa neppure nell’anticamera del cervello (ad esempio della politica) che “la nostra Italia dimenticata avrà un futuro se sarà in grado di creare un modello a nicchie interconnesse, fatto di piccole realtà ma che eccellono perché c’è sempre meno spazio per la mediocrità e nessun futuro per chi pensa di ritornare al passato o, peggio ancora, non fa nulla”.
Eccolo qui, il vero problema: saper puntare su eccellenza e innovazione (certo partendo dalle forti identità che si respirano in terre alte, fatte anche di antica cultura e di autentica sapienza); rinunciare alle inutili, pericolose, tentazioni del nostalgismo (“come eravamo belli e forti prima”). Ma soprattutto rifiutare la bestemmia peggiore: il non fare nulla, il dare tutto ormai per perso, l’abbandonare l’intera montagna al destino di semplice “parco giochi” per cittadini annoiati e accaldati con i pochi residenti rimasti ridotti al ruolo di paggi o, peggio, di figuranti in costume. Da protagonisti a (se va bene) comparse. Oppure a … vite scomparse.
Lo spopolamento
A colpire, in particolare, sono i dati demografici. Su uno spopolamento che Marco Breschi fa davvero poca fatica a confermare come nazionale, italiano.
Dai 59 milioni di italiani oggi residenti in Italia (e mai dimenticare i 60/80 milioni di “altri italiani” – figli, nipoti, bisnipoti, ma anche giovani contemporanei – che vivono in ogni parte del mondo) da questi 59 milioni di residenti attuali, nel 2080 (che non è mica poi tanto lontano!) si potrebbe scendere, stando così le cose e se nulla cambia, a 46 milioni. Che a loro volta scenderebbero ad appena 35 se mancassero gli immigrati.
14 regioni su 20 sarebbero desertificate. Il Sud potrebbe perdere ben 8 degli attuali 13 milioni di residenti. Solo il Trentino Alto Adige (dove la montagna è … “maggioranza”) non perderebbe abitanti. Nei comuni montani più piccoli si andrà oltre il tracollo: una vera desertificazione demografica. Gravissima la situazione nei comuni montani under duemila abitanti. Per non parlare di quelli sotto i 500 abitanti.
Tutti dati – avverte con chiarezza il demografo – da leggere con estrema cautela. Anche perché nulla può essere dato per scontato. Ma per evitare il dramma (l’eutanasia delle zone montane) occorre intervenire con radicalità. Con innovazione. E con velocità. Caratteristiche, purtroppo, non molto visibili in una politica nazionale (l’unica, in sinergia con l’Europa, che potrebbe intervenire con efficacia) tesa a starsene chiusa nei confini di una perenne campagna elettorale oltretutto sempre meno frequentata dai cittadini.
I “casi” di Abetone e Sambuca
Per restare alla montagna pistoiese di questi ultimi giorni, colpiscono due fatti. Alle estremità del territorio.
Da un lato in quella che fu capitale del turismo invernale di massa, Abetone (oggi unita con Cutigliano) al dramma di un’altra stagione senza neve (che ha portato ad annullare l’edizione 2024 del “Pinocchio sugli sci”) si unisce lo scioglimento anticipato del Consiglio Comunale e l’arrivo di nuove elezioni amministrative.
Se l’assenza di neve dipende da un cambiamento climatico che pure qualcuno, ancora oggi, si ostina a minimizzare se non a negare mentre è purtroppo evidentissimo e dovrebbe obbligare tutti a un radicale ripensamento dell’economia locale, lo scioglimento del Consiglio Comunale è imputabile soltanto alla debolezza (se non assenza) di una politica vera: quella fatta di pensiero e di visione, non di piccole beghe e di ritorsioni suicidarie.
Dall’altro lato c’è Sambuca. Pure essa terra di confine e di potenzialità. Anche qui, a giugno, dovrebbero esserci elezioni. Ma le cronache dicono che è molto difficile, per tutti gli schieramenti, trovare un cireneo che voglia caricarsi una croce molto pesante come quella.
Fare il sindaco lì è non solo difficile, ma con molta probabilità – se non cambia qualcosa – perfino impossibile. Quello uscente ha proposto di unire quel Comune in parte con Pistoia e in parte con Alto Reno. Chissà. Alla fine i partiti troveranno qualche candidato, ma il problema resta. Ed è comune: ad esempio avere istituzioni prive, nel ceto politico ma soprattutto in quello operativo, di quelle competenze elevate che oggi servirebbero davanti alla complessità delle questioni da affrontare.
Ed è, più o meno, il problema che unisce l’intera parte di questo Appennino toscano (non è un caso che il capitolo dedicato alle differenze di reddito fra pianura e montagna (curato da Gabriele Ruiu), mette proprio “il versante toscano dell’Appennino tosco emiliano” fra le aree messe peggio in tutta Italia.
Da semplice cronista, certo non esperto in Demografia, qualche dato locale sul saldo anagrafico in tre comuni della montagna pistoiese in effetti colpisce. E non poco. Dati raccolti tramite i rispettivi uffici anagrafe e riferiti all’anno 2023.
Ad Abetone Cutigliano nell’intero 2023 sono nati 4 bambini e morte 31 persone. A Sambuca 3 i nati e 11 i morti. A San Marcello Piteglio 185 i morti e 38 i nati. I rispettivi indici di vecchiaia (il rapporto, nei residenti, fra over 65 e under 15) sfiora 427 punti sia ad Abetone Cutigliano che a San Marcello Piteglio mentre supera i 430 a Sambuca. Dati clamorosi, da Guiness mondiale dei primati. Tristi primati. Neppure 11 mila, fra tutti e tre questi Comuni, i residenti.
Alcune proposte
C’è poco da stare allegri. Eppure in “Italia dimenticata” non mancano spunti, proposte, alternative. Tutto da gustare, ad esempio, il breve capitolo di Maurizio Ferrari su quello che viene definito “circolo virtuoso della prossimità”. Una strada obbligata – scrive – “se si vuole uscire da una logica globalizzante e algoritmica in cui ci siamo cacciati”.
Intende, Ferrari, che un futuro “altro” delle terre “alte e remote” non può non partire dalla valorizzazione, certo interpretata con criteri innovativi, delle antiche culture e tradizioni che ancora si ritrovano fra i “montanini”. Perché la prossimità (“valore economico, microeconomico ma anche macroeconomico”) davvero “può essere una risposta prospettica alla voglia di resilienza delle popolazioni delle aree collinari e montane che entro pochi decenni saranno a grave rischio di desertificazione demografica”.
Un volume, insomma, insieme al precedente, da tenere bene in evidenza. Sia che a leggerlo siano cittadini (di montagna e anche di pianura senza scordare le colline). Sia che a leggerlo sia un ceto politico magari diviso su molto, però almeno capace non solo di leggere ma anche di capire. E, dopo, di agire.