Con questo articolo di Luigi Peruzzi inizia la collaborazione fra la Voce della Montagna e la Società Pistoiese di Storia Patria.
I fatti
La sera della Vigilia di Natale dell’anno 1627 alla Sega, vicino a Stazzana, fu ucciso con un colpo di archibugio Bastiano Niccolai di Cireglio; tornava a casa dal mercato di Pistoia con due galline e due fiaschi di vino. Un notaio pistoiese condusse le indagini, prima di inviare il risultato degli interrogatori ai giudici pistoiesi, che a loro volta avrebbero dovuto trasmetterli a Firenze per la sentenza definitiva.
La giustizia pistoiese incriminò Mariotto Gavazzi di Cireglio, suo fratello Piero e trasmise al Tribunale ecclesiastico pistoiese gli atti giudiziari che coinvolgevano per correità nell’omicidio anche il prete di Campiglio, Giovanni Venturi.
Molti abitanti della Valle del Brandeglio coinvolti nelle indagini
Per individuare i colpevoli dell’omicidio vennero interrogati molti abitanti di Campiglio, Stazzana, Sarripoli, Cireglio e Castello di Cireglio e non fu nemmeno risparmiata loro la tortura, una pratica molto comune in quel tempo, che non escludeva nemmeno gli adolescenti e persino i bambini.
Gli indagati erano perlopiù legati da un rapporto di parentela e, come succede ancor oggi, le liti tra congiunti erano all’ordine del giorno e arrivavano anche alle estreme conseguenze.
Consultando gli atti, colpiscono i cognomi degli indagati e dei testimoni, cognomi “storici” nella Valle del Brandeglio che ancor oggi sono presenti in zona, come i Poli, i Petrocchi,i Begliomini i Pisaneschi, i Niccolai, i Gavazzi e colpiscono anche i moventi dell’omicidio, incentrati su proprietà terriere rivendicate, invidie, ingratitudini e prepotenze.
Ma ciò che forse stona di più è la figura del prete di Campiglio, Giovanni Venturi, un tipo senza scrupoli, che per un campo di lupini aveva in odio la vittima.
Uno spaccato socio-economico della valle
Un focus sui personaggi della vicenda e sulle loro attività permette di delineare la situazione della Valle del Vincio di Brandeglio nel XVII secolo da un punto di vista socio-economico, che poi non è lontana dalle condizioni generali in cui versava l’intera nostra Montagna pistoiese.
Intanto la valle era un luogo di immigrazione; riscontriamo, infatti, uomini provenienti dal Frignano, che allora chiamavano Lombardi, ma anche originari di zone costiere della toscana, come Dianora, una donna che viveva a Cireglio ma era originaria di Castiglioncello (Livorno) e che per sopravvivere faceva i lavori più umili, come spazzare i prati, pulire il grano durante il raccolto e concedersi per sbarcare il lunario. Da notare che la povera Dianora, che risultò essere l’amante dell’omicida, aveva convissuto per 20 anni con un prete con cui aveva avuto tre figli e dopo la morte di lui era stata costretta a darne due in affidamento ad una famiglia pistoiese ed a mantenere il terzo arrangiandosi.
La terra, come detto sopra, era la principale risorsa economica; importanti famiglie pistoiesi avevano in questa collina diversi poderi, con campi coltivabili e vigneti, lavorati ad abitanti del luogo, che di professione facevano gli agricoltori, come Mariotto (l’omicida) il quale, oltre a presentarsi come un tipo pericoloso, era conosciuto come un forte zappatore.
Dunque un’economia povera che a stento sfamava famiglie di solito numerose che facevano lavorare anche i figli più piccoli dietro alle pecore o alle vacche, come del resto è accaduto nella nostra Montagna fino a metà del secolo scorso.
L’elezione del prete e le pratiche giudiziarie
Dagli atti del processo si deducono altri aspetti interessanti, ad esempio l’elezione pubblica del prete che assomigliava molto alle nostre pratiche elettorali, brogli compresi. Giovanni Venturi, il già nominato priore senza scrupoli di Campiglio, aveva di fatto comprato la propria elezione, promettendo a molti dei cittadini votanti uno staio di farina di grano oppure un sacco di farina di castagne affinché esprimessero la preferenza a suo favore con una fava nera (questo era il sistema di voto), salvo poi, a scrutinio avvenuto, non mantenere la promessa di elargizione della farina. Evidentemente padre Venturi aveva disponibilità economiche notevoli, a differenza del suo avversario, un prete di Bologna che non poteva promettere nulla.
Altro aspetto di un certo rilievo è la pratica consueta della tortura inflitta ai testimoni reticenti o ai bambini. Si ricorreva spessissimo al carcere e, all’interno di quelle mura si convincevano “gli ospiti” con un tiro di fune, cioè sospendendoli in aria per le braccia o per i polsi, oppure usando la stanghetta, uno strumento di tortura che strizzava i piedi con grandi dolori dei malcapitati. Ai più piccoli si riservavano staffilature e frustate. Infine, sempre in ambito giudiziario, il documento fa notare quanto poche fossero le guardie di pubblica sicurezza: erano in totale 24 e dovevano controllare un territorio enorme , che si estendeva fino alla montagna.
L’arma del delitto
Nella Valle del Vincio di Brandeglio la caccia era una pratica comune che serviva per procurarsi cibo, per cui in molti detenevano armi, ma pochi avevano un archibugio a ruota, che risultò poi essere l’arma del delitto. L’archibugio a ruota era un’arma complessa, la cui invenzione viene fatta risalire da alcuni a Leonardo da Vinci. Si trattava di un’arma pesante, circa 12 chili, e poteva essere imbracciata solo da uomini robusti e Mariotto Gavazzi lo era; spesso lo vedevano aggirarsi armato per i campi e minacciare i contadini.
La novità di quel tipo di archibugio, a differenza dei meno sicuri archibugi a miccia, consisteva nell’avere un meccanismo ruotante dotato di acciarino che innescava la polvere da sparo: la palla di piombo fuoriusciva da una canna molto lunga che forniva una particolare precisione di tiro.
Complessivamente l’arma era 1 metro e 51 centimetri.
La condanna di Mariotto e di suo fratello Piero fu certa, ma non risulta l’entità della pena comminata dai giudici fiorentini.