SAMBUCA – “Chi non beve con me, peste lo colga!”: chi non ricorda questo slogan divulgato in tivù ma già in uso nel 1942 grazie a un film, La cena delle beffe del quale era protagonista Amedeo Nazzari? L’azione si svolgeva a Firenze, e si ispirava a un dramma di Sem Benelli, il commediografo noto anche per un’altra opera di argomento toscano, L’Amorosa tragedia scritta nel ‘25 e ambientata, stavolta, al castello della Sambuca: un successo, applaudito in tutte le platee. Grazie alle repliche (osteggiate invano dal regime), dove fosse la Sambuca, quale fu la sua storia o com’era il carattere delle sue genti lo sapevano tutti. Era, insomma, uno spettacolo che parlava del nostro Appennino. Eppure, sembra incredibile, oggi non se lo ricorda nessuno. Ne accenna un numero di “Incanti d’Italia” dedicato alla Montagna Pistoiese (1936). Mi è sembrata un’opera straordinaria, e ne ho scritto in due articoli, uno per “Nueter” (2011, 73), la rivista del Gruppo Studi Alta Valle del Reno, e l’altro per la “Lunigiana Dantesca” (on line, n. 178, 2021).
Guelfi bianchi e guelfi neri, Cino da Pistoia, i pellegrini sulla via Francigena, qualche eremita e perfino una strega…
Ma di che cosa parla L’Amorosa tragedia? “…In questa superba plaga appenninica Bianchi e Neri nel dugento toscano, lotte di parte, rivalità amorose, ammazzamenti si svolgono in Sambuca». Benelli trasse la materia prima da un manoscritto, le Storie Pistoresi che tramandavano un fattaccio reale. L’intreccio mette in scena una trama avvincente. A Pistoia, alticci dopo una bevuta gloriosa, gli Amadori e i Rinieri arrivano al duello. La città si divide in fazioni. Scorre il sangue. In città non si può rimanere. Bisogna cercare scampo. Dove? Alla Sambuca! I “buoni” cercano di sfuggire ai “cattivi” e salgono verso il castello dei Vergiolesi. Qui incontrano gente semplice «…che ha ottanta e novant’anni e non ha saputo chi fossero l’imperatore, il papa”, né manca, “laggiù, nel bosco”, “una donnina che mormora le sue preghiere: è maga, è strega, dicono; e sa tante malie».
Sulla sommità del monte aspetta i nostri eroi Costanza, l’eremita, altro personaggio interessante: nobile, un tempo, viveva libera sulle montagne improvvisando “strambotti” («…Ero selvaggia, e trasvolavo come un raggio d’oro tra i fusti delle piante…»). Purtroppo, diventata cieca e ripudiata dal marito, perfido quanto il figlio Arrigo, il «malvagio» della faccenda, vive nel cavo di un castagno (come quello del Monte di Badi?). L’altra figura “carismatica” è lo zio Simone che assiste la sfortunata: pellegrino sulla via Francigena, si è fermato a Sambuca. Qui i “buoni”, fuggiti dalla città, finalmente si ricongiungono. Vanna riabbraccia Dore mentre Matelda ritrova il suo Guido. Doppie nozze a San Jacopo nella “cappella della Sambuca dove fummo sposi”. La pace, però, è di breve durata. Arrigo, il malvagio, sale la mulattiera. Vuole far fuori Dore. Si finge pentito, e fa in modo di allontanarlo. A ucciderlo penseranno i compagni. Dore, anche se mutilato dai nemici, lo affronta con la semplicità delle persone leali ma cade nel tranello. Un grido informa il pubblico che l’eroe è morto. A quel punto, con un gesto da cavaliere Vanna estrae la spada che le aveva consegnato il marito e trafigge il traditore. Poi crolla. Quando accorre Simone, lei, «ebbra di pianto… gli indica Arrigo morente». E qui cala la tela.
La Sambuca: il luogo di una visione dall’alto (che sarebbe piaciuta a Terzani)
Al di là del linguaggio superato, colpisce, qui, la modernità del pensiero. La Sambuca diventa il luogo simbolico di una visione “dall’alto” («Se andassimo sui monti e guardassimo questa gente, di lassù in cima…»). E’ una visione interiore, e più che un paesaggio, una “meditazione”. Il “guru” della situazione, in questo caso, è Simone («…un ramo di castagno nel sole è il vostro parlare, zio»). Il vecchio “illumina” con le sue parole i giovani e a tutti offre spunti per la riflessione: «Tu guardi in alto, figliolo, e loro sono bassi», ammonirà il buon Dore che si è presentato spontaneamente al nemico. Non mancano, poi, l’amore per la Natura che cerca un riflesso del Divino negli alberi, le tradizioni popolari e la conoscenza della cultura locale: la civiltà del castagno, gli antichi saperi femminili, le cantatrici improvvisate (e certamente Sem ne conobbe qualcuna), e “sa d’Appennino” la realtà “immutabile” (e per certi aspetti privilegiata) del popolo della Sambuca che «vive in santa pace…e d’una cosa sola s’alimenta: della buona farina di castagne, e ne fa castagnacci, o necci cotti tra le foglie e i testi…».
E se Benelli fosse stato alla Sambuca, in casa di Michele Barbi?
Benelli era di Filettole, in quel di Prato, ma conosceva l’Alta Valle del Reno. Nella tragedia qualcosa fa pensare a un soggiorno alla Sambuca, o magari a un passaggio da Tavian Vecchio dove abitava uno dei letterati più famosi dell’epoca: Michele Barbi. Ci fu un dialogo tra lui e Sem Benelli? Il 17 luglio del 2021 l’incontro di studi organizzato a Sambuca dal Parco Letterario Policarpo Petrocchi in occasione dell’ottantesimo dalla scomparsa del Barbi ha contribuito non poco al rilancio della cultura del luogo che fu centrale, nel dibattito del primo ‘900, come hanno sottolineato Gabriella Albanese e Paolo Pontari. Del resto, a Taviano, dove arrivava carico di libri, Michele Barbi ospitava il Carducci che andava a prendere con il calesse alla stazione della Venturina (un fatto, questo, che ricordano in pochi). Benelli non poteva mancare. Se ci fu un colloquio lo potranno dire i documenti, certo, ma è improbabile che il commediografo, di passaggio lungo la Porrettana, non si fosse mai fermato presso il grande umanista. Che lì, davanti al fuoco, potrebbe avergli parlato delle antiche storie della Sambuca…