La montagna come terapia.
Ci speravamo tutti, dopo l’asprezza e il dramma del Covi 19, che la montagna, davvero potesse diventare uno stile di vita, una terapia anche riabilitativa dalla sofferenza raggiunta, dalla segregazione forzata occupata su ogni persona fisica: insomma, ingredienti e aspettative per tornare a gioire, accudendo i nostri sensi, c’erano tutte.
La resilienza una volta si chiamava forza d´animo: la tymoidés di Platone, indicandone la sede nel cuore che è e resta espressione metaforica del sentimento.
Il sentimento è forza. Forza che, dopo aver analizzato tutti i pro e i contro decide una strada piuttosto che un´altra: perché ci si sente a casa, più protetti. Guai a essere stranieri nella propria vita.
La montagna, quindi, diventa chiave salutare: coincidenza di noi con noi stessi, dove evitiamo gli altrove della vita anche se, spesso, il bisogno di essere accettati, amati ci fanno percorrere strade non nostre: ecco che s’indebolisce l´animo nell’inutile fatica di compiacere agli altri.
Un’occasione fallita
Ma per essere se stessi occorre accogliere a braccia aperte persino i nostri difetti, farceli amici, parlare con la nostra ombra e tutto ciò che rifiutiamo di noi: solo così cessa la guerra con noi stessi. Dobbiamo imparare a dire: “Sì, sono anche questo!” Perché anche il dolore appartiene alla vita. Come fatica del quotidiano. Qui abbiamo fallito! Poteva essere l’occasione giusta, ma il proprio ego è tracimato, dopo la pandemia, con gl’interessi e la cattiveria, la supremazia dell’io sugli altri, purtroppo, ha ancora prevalso.
Oggi la parola tradizione è defunta perché estinta la morale. Si è smarrito il senso dell’esistenza. La storia non racconta più la vita dei nostri padri e la parola che rivolgiamo ai figli è insicura e incerta.
S’incontrano gli sguardi solo per evitarsi. Siamo solo riconoscenti al ritmo del lavoro settimanale che svolgiamo e che giustifica l´ordinaria lontananza dalla nostra vita, restando in perenne attesa che qualcuno ci prenda per mano in questo mare minaccioso costruito da rapporti sociali introversi. Come se trascorressimo gran parte della nostra vita senza passione, senza elevarci, che poi è la base della nostra esistenza. Tendiamo a vivere di più: il come non ci riguarda. Qualche occhiata passionale che, a mala pena, sfiora la nostra anima, non certo la risveglia. Passioni vere poche, come pochi gli individui che le coltivano. Perché? Ci vuole tempo, dedizione, fatica: oggi giorno non siamo più disposti a misurarci con noi stessi, con la nostra ombra. Abbiamo paura. Lavorato sulla paura individuale, poi collettiva…forse.
Non mi sono mai inchinato a quell’ideale di vita che viene spacciato per equilibrato, educato, nella norma…Ho sempre cercato storie soddisfacenti, non solo per me ma per la mia ombra.
Abbiamo colpa per ciò che facciamo, non per quello che sentiamo. Comandiamo le nostre azioni e non i nostri sentimenti. In effetti promettiamo azioni, non sentimenti.
Viviamo nel costante desiderio che il mondo cambi, anche senza il nostro intervento. Il mondo cambia: noi restiamo fermi! Se vuoi scuotere un albero con le mani non ce la farai: il vento sì! Sono mani invisibili quelle che ci piegano.
Ecco che tutto ciò si ripercuote, inevitabilmente, anche sui fruitori della montagna, sia estiva che invernale. Restiamo tutti accalcati nei rifugi, in fila per un caffè o sopra un sentiero pensando che, come un branco di sardine che incute terrore al predatore: “Ho una possibilità di salvarmi, di non essere proprio io quello che verrà mangiato”.
Un’estate catastrofica
Quest’agosto è stato catastrofico. Mai ho vissuto un mese così tragico, per il genere umano in montagna, almeno sul mio Appennino: liti ovunque, insulti, una mignon divisa in quattro, un caffè in due, un coperto per tre “Prima io sul sentiero, tu vai troppo lento, non sei adeguato, il cane tienilo legato altrimenti di denuncio, io ti meno, sei nevrotico, guarda tua moglie”… Per non parlare della guerra ai mirtilli con tanto di ruberie di cesti altrui, violenze e percosse tra raccoglitori… Pochi i funghi, per fortuna… Le chiamate al 118 e al soccorso alpino si sono sprecate, rasentando il ridicolo. Ho visto il peggio, quest’autunno, cavalcare piazze e crinali del nostro Appennino. Ho compreso che siamo più soli e impauriti, dopo la pandemia quasi superata e, purtroppo, una guerra alle porte che riguarda tutto il mondo.
La montagna come scrigno d’emozioni
La montagna è scrigno d’emozioni: per questo conquista. La quiete è sorprendente. Persino irreale. Il forte linguaggio visivo dei luoghi che ho visitato, al pari di quelli che spesso rivisito, hanno condizionano e tuttora influenzano il mio animo. Cedo volentieri all’energia della montagna: artigiana del mondo. La montagna è uno stato d’animo. Nella semplicità della montagna trovo soddisfazione, oltre ad un senso di appagamento. E appartenenza. La montagna è sapiente e con coscienza t’insegna, lentamente, a misurarti con te stesso, senza alcuna possibilità di barare. Al pari di un lavoro ben fatto.
Nell’abbandono profondo di misteriose tonalità, come fili di ricami preziosi, i raggi del sole di fine agosto cominciano a lambiscono i crinali, creando giochi di future ombre. Sfumature sussurrate, penetrano tra le foglie ricamate da mille colori, perdendosi negli anfratti del terreno, non prima d’aver impreziosito, come un singolare ricamo, le prime brine che sorridono all’erba ingiallita.
La montagna come cultura di vita
La montagna bisogna insegnarla nelle scuole, come cultura e valore di vita: per me, oggi, incontrare un contadino è un dono. Anche se ogni incontro è un dono. Invece ho visto molti palestrati sulle nostre montagne e, davvero, nessuno me ne voglia… Molti capi firmati hanno percorso i fili di cresta delle vette e i rifugi mordi e fuggi: credo davvero che tutto questo sia solo deplorevole, allontanandoci maggiormente gli uni dagli altri e impoverendoci tutti.
Vivo dov’è vissuta la mia gente. Da sempre. Accomuno la disgrazia d’un decesso alle bevute con gli amici: diversivo di tutti i paesi.
La montagna che non riconosco più
Gli adulti al lavoro: ottenere il pane più con le mani che con l’intelletto. I bimbi a crescere: nel bosco, nelle stalle, a scuola. Oggi non è più così e forse sto invecchiando, non accettando il consumismo di massa come elemento deterrente per continuare a viverci, in montagna: ciò che racconto è accaduto pure sulle Alpi e potrei citare tante altre testimonianze d’amici che lavorano nell’indotto del turismo. Anche al mare non credo sia andata meglio…
Una mattina di fine agosto esco presto: voglio portare un saluto ad un amico che ha disperso le ceneri in montagna. Arrivo che è ancora l’imbrunire d’un nuovo giorno. Mi godo il fresco della mattina. L’attimo… Mi perdo nei pensieri. Assorto, sento un qualcosa che mi colpisce alle spalle. Spaventato, mi giro e un cavallo, di quelli che vivono allo stato brado a Pian Cavallaro, con il muso mi è arrivato a lambire la spalla. Sorpreso, lo guardo. Il cavallo, tranquillo, sbuffa e riprende la salita sul crinale. Appena conquista il crinale, il primo raggio di sole mi colpisce e illumina pian piano la vallata: ecco la montagna! La mia! Dovrebbe essere anche la vostra…
Scendo che sono quasi le undici. Bevo ad un ruscello e lo sguardo mi cade sopra un biglietto, per terra. Curioso, lo apro. Una scritta, a penna, e lo leggo: “Non possiamo fare grandi cose. Possiamo, però, fare piccole cose con un grande cuore”. Madre Teresa di Calcutta.
Con la speranza che il prossimo agosto siate tutti un poco più maturi… con voi stessi. E con chi vi circonda.
Da sinistra una capanna celtica, la processione di San Bartolomeo a Fiumalbo e una persona intenta a raccogliere mirtilli