La ricerca  |  aprile 19, 2022

Corsi e ricorsi della nostra piccola storia

In tempi in cui torna la paura di spettri che pensavamo relegati per sempre al passato - la miseria, il contagio, la guerra - è bene ricordare come questi malanni venivano affrontati sui nostri monti. Dove la vita era dura fin dal primo giorno in cui ci si affacciava al mondo

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La miseria, ovvero “economia” di un tempo non lontano

Non serve poi tornare tanto indietro, tre generazioni sono più che sufficienti per rendersi conto che è cambiato tutto. Basta pensare al numero dei figli alla fine degli anni ’30 del secolo scorso: quando una famiglia aveva tre figli… erano pochi. Pochissimi nel caso di tutti viventi, vista l’incidenza degli aborti e della mortalità infantile. La selezione naturale solitamente avveniva entro il sesto anno, superato il quale si poteva dire che le prove di resistenza erano tutte superate, compresa quello dell’avviamento al lavoro. Nel dopoguerra le cose sono andate migliorando in termini di sopravvivenza, ma ce n’è voluto del tempo per risollevare le famiglie dalla miseria, in particolare sulla montagna dove non tanto la fame quanto la precarietà del lavoro rendeva la vita grama. Tanto che gli stessi bambini imparavano presto la regola fondamentale dell’esistenza – “di quel che non c’è, si fa senza” – per cui ogni piagnisteo era del tutto inutile.

La lotta allo spreco

Contemporaneamente veniva appresa la lotta allo spreco, per cui tutto poteva “tornar buono”, persino un barattolo di conserva (vuoto naturalmente). Si spezza il laccio di una scarpa? Si riannoda. Uno strappo nel vestiario? Si rammenda. Da non dimenticare i “rimedi” drastici praticati sui pantaloni, vere e proprie pezze visibili a distanza (per fattura e colore) che prendevano il nome di “culi” e “ginocchi” in corrispondenza diretta alle zone di maggior usura. Per le scarpe “fine” (ovvero specifiche per la domenica che dovevano durare anni e anni) la scelta obbligata erano almeno due numeri in più della calzata già abbondante al momento dell’acquisto. Stesso calcolo a crescere per maglioni, calzoni, cappotti con provvidenziali orli calati alla bisogna. Imparavi così fin da piccolo il valore primo di ogni cosa posseduta: doveva durare all’infinito, perché o quella o niente.

Altro che civiltà dei consumi! Quella sarebbe venuta dopo, molto dopo per chi allora era bambino, ma per gli anziani degli anni Quaranta e Cinquanta il “progresso” per loro non sarebbe arrivato in tempo. Non tanto per uscire da una vita all’insegna della fatica – abituati com’erano fin da piccoli “a portar la soma come i somari” – quanto per concedersi comodità allora impensabili: l’acqua e il cesso in casa (non un anfratto detto con sottile ironia “logo commodo”), un bagno vero e non un paiolo d’acqua in una tinozza, l’intera casa riscaldata. Il freddo che hanno patito i nostri avi lo può comprendere soltanto chi ha provato a riscaldarsi davanti al solo camino, grande e aperto come da tradizione: “davanti nigeria, dietro siberia”, come diceva Severino che era stato dappertutto nel mondo e raccontava di caldi e freddi “che voialtri a’n vl’insognà gnanche” (che voi non ve li potete neppure immaginare).

L’avvento dell’elettricità

Eppure un segno del progresso era arrivato: la luce elettrica. C’è da dire che quel voltaggio 160V era solo teorico e bastava un solo ferro da stiro elettrico (novità quasi impensabile) a far sì che la lampadina da 40 candele (già un lusso!) si riducesse ad emanare un alone giallastro rendendo ben visibili i filamenti rossi dell’incandescenza. Sempre meglio di quel fumaccio nero delle lampade a petrolio o del fetore di quelle alimentate col sego. “O a’n tl’arcordi” (O non te lo ricordi?) doveva ripetere la buona Emma al marito ogni volta che questi attaccava un rosario di bestemmie alla lettura della bolletta”dla tó lusge” (della tua luce). Va detto ad onor della cronaca che in quella casa si andava a letto all’ora delle galline e non c’erano altri elettrodomestici se non quel “rivoluzionario” ferro da stiro che l’Emma aveva preteso perché – diceva – “con le scalmane a’ns pol’acendre la stufa d’istade” (per riscaldare i ferri da stiro di sol ferro di una volta che qualcuno ricorderà). Dovevano essere un impedimento grave, queste “scalmane”, perché il marito gliela aveva data vinta (con corredo di moccoli, naturalmente).

Il risparmio come valore morale

Certo tutto diventa caro quando se ne ha pochi da spendere. Ma certe abitudini “francescane” erano talmente radicate da apparire quasi incredibili in tempi in cui si parla di risparmio energetico. Il “rispiarmo” (così chiamasi in sambucano) era allora una costante della vita di ogni giorno. Si risparmiava anche nella legna – di cui c’era solo abbondanza – o nel centellinare la carbonella nei fornelli (il gas, pur in bombole, doveva ancora apparire all’orizzonte). Ne andava dell’orgoglio femminile stesso “saper acendre il fòco” sentenziava in linguaggio misto toscano l’Angiolina, dissacrando agli occhi del figlio la fresca consorte, la quale ogni santo giorno saturava la casa di fumo in tentativi plurimi quanto vani e quindi “era una donna da poco” proprio come recitava il proverbio.

La motorizzazione doveva ancora arrivare e quindi i consumi energetici si trasferivano a quelli richiesti dal corpo “perché sacco vuoto non sta in piedi” – si ripeteva – alludendo alla necessità di riempire lo stomaco quale principio motore per poter lavorare sodo. Anche a tavola la morigeratezza era la regola prima. Basti pensare al rapporto tra pane e companatico, smisuratamente sbilanciato dalla parte del pane. Con prove da record come quella di Anacleto, capace di mangiare un’intera pagnotta di pan toscano (1 Kg circa) con 1 etto di mortadella. Ma quando c’è l’appetito si può arrivare oltre, cioè mangiare “pan biuscio”, ovvero solo pane, come successe a Orlando quel giorno che sbocconcellando di passo in passo si accorse a metà strada di aver mangiato l’intera pagnotta appena acquistata e così dovette ritornare alla bottega a comprarne un’altra per tutta la famiglia. Tanta sobrietà aveva una sola eccezione, la domenica: il vino all’osteria scorreva a fiumi. Gli uomini si concedevano finalmente il lusso di “potersi bagnare il becco”, ma si sa che il vino appanna la vista e i bicchieri chi li conta più! Fino a non poterne più… “Bevi Meo!” disse Quintilio al suo compagno di bevute epiche, e Meo di rimando “ Cosa vuoi che beva… che se mi metto un dito in gola lo tocco (sottinteso il vino)!”.


Sante Ballerini

Sante Ballerini Dalla natìa Campeda perduta tra i boschi dell’Appennino pistoiese alla fiorente Mantova, l’incanto in ogni dove. Così un giovane di belle speranze lasciò alle spalle l’aura di Selvaggia e il sogno bolognese per scoprire nella terra di Virgilio e Nuvolari altri miti ed uno tutto nuovo che sapeva di fantasia, il mondo della pubblicità. Sono trascorsi più di cinquant’anni e quel viaggiatore continua a vivere delle idee che bontà loro gli tengono compagnia insieme ai libri che dal 2018 ha cominciato a dare alle stampe con il logo SCRITTI&LETTI, libri che nascono per il piacere di scrivere e leggere.