Desidero ringraziare Federico Pagliai per aver scelto Campeda come meta della sua ricerca dello spirito del Natale. Ha la mano particolarmente felice, Federico, quando descrive le sensazioni che accompagnano il viaggiatore solitario, lui che ama definirsi randagio presso boschi e che non può che rifuggire dal “Natale psichedelico e fatto di luci isteriche”. Per Federico “è lì, a Pidercoli (il nucleo più alto di Campeda) che alberga il Natale. È il silenzio che mi dà questa suggestione. Non si spiega con l’assenza di rumori, quel silenzio lì. E’ roba che travalica l’udito. Si apprezza sulla pelle scoperta, si lascia guardare. E, niente si tocca, nemmeno si fiata, per evitare di romperne l’incantesimo”. Scendendo a Campeda, Federico fa una singolare scoperta: “In un angolino, penzoloni da una porta, vedo un qualcosa che luccica. Mi avvicino. È una stella di Natale. L’unico segno di ricordanza umana verso quella festività. Alzo un po’ la voce, canticchio, cammino volutamente appesantendo il passo e sbatacchiando gli scarponi. Qualcuno uscirà? mi domando. Macché, non c’è anima viva. Non importa. A rendere vivo, perché vero, il Natale di quel posto è quella stella appesa alla bell’e meglio su un portone di legno.”
Sa quali corde toccare, Federico, per portare dalla sua chi al Natale dell’allegria forzata e dei regali inutili preferisce il buen retiro nei luoghi del silenzio. Ma a chi come me ha fatto in tempo a veder quei luoghi animati dalle voci e dai suoni della vita quotidiana, quell’assenza di rumori evocata nel racconto mette una tristezza infinita. Anche perché so bene perché la gente è andata via tutta, non appena ha potuto trovare un’alternativa ad un’esistenza fatta di fatiche e precarietà, presenze costanti fin dalla nascita per intere generazioni su questi monti. Una diaspora iniziata già un secolo fa comune a tutti i versanti dell’Appennino e che su questi ultimi contrafforti di Toscana si è trasformata nel secondo dopoguerra in un vero proprio esodo. Così si sono spente le voci e perfino quelle luci rossastre per l’incerto voltaggio che filtravano attraverso i vetri appannati fino a tardi nella notte di Natale. Un Natale che a quei tempi richiedeva – pure quello – una fatica aggiunta, in particolare per i bambini chiamati ad un compito che superava le loro forze ma non la loro buona volontà: raccogliere quanti più ginepri per il falò della Vigilia.
IL FALO’ DI NATALE
“Sté mia a pensar che andar per zinevvari a sia semplice” disse il buon Giovanni – per tutti Giovanella – rivolto in particolare al nipote, un biondino che portava il suo stesso nome e che veniva ora investito della responsabilità di guidare noi più piccoli a caccia di ginepri per il falò della vigilia di Natale. Lui, Giovanni – per tutti Nanni – solo detentore del maraccio (pennato), strumento indispensabile per abbattere i ginepri quanto pericoloso (“a taja anc’al gambe”, taglia anche le gambe ribadiva il nonno) e quindi riservato in via esclusiva al più grande (si fa per dire, Nanni all’epoca dei fatti non aveva ancora dieci anni). Ai piccoli in dotazione la sola funa (corda col cappio) per trascinare i ginepri, i cui aghi bucano tanto che non li puoi sfiorare (o provva! ovvero, provaci!).
Così andavamo per le coste più aride dove il calastrino (galestrino, sorta di roccia che si sfoglia di continuo) non ti fa stare in piedi, ma lì era più facile trovar gruppi di ginepri, anche se il bel sempreverde lo potevi rinvenire isolato un po’ dappertutto (adesso, su questi stessi monti, non ne trovi uno neppure se vai in giro un giorno intero!).
Una volta trovati e tagliati i ginepri già la fatica era tanta, ma ancor niente rispetto a quella che ti aspettava per trascinarli fin sul prato sopra la Chiesa. Qui veniva il bello perchè le coste dei monti sono in continuo pendìo e i ginepri sono rotondi: facile comprendere che era una lotta continua contro il rotolamento a valle e, viste le proporzioni tra ginepro e bambino, grosso era il rischio da andare tutti a rodolon.
Era comunque una gran soddisfazione vedere la catasta dei ginepri raccolti che aumentava di giorno in giorno; questo malgrado le inevitabili bucature (quanti bugotti!), i lividi e le sbucciature di gomiti e ginocchi, i raffreddori per il freddo patito tra vento (sempre) e la biancolina (neve bassa, poco più di brina).
Tutto questo quando arrivava la sera della Vigilia veniva di colpo dimenticato tanta era la festa della gente intorno al falò. I ginepri gettati da sopra sfrigolavano non appena incontravano la fiamma che si elevava al cielo in un nugolo di fulimme (faville) che chissà dove andavano a finire. E la festa era tanto più grande quanto più il falò era alto e durava, in gara con le borgate dirimpettaie che l’alone di luce dei rispettivi falò faceva uscire all’improvviso dal buio e sembrare ancora più vicine, tanto che gli esperti potevano cimentarsi nel confronto (ovviamente sempre di parte).
Intanto si spandeva per l’aria un profumo intenso di resina e di coccole, ed era lo stesso buon odore che avresti ritrovato più tardi tra le lenzuola dove la mamma aveva messo il prete con lo scaldino pieno dei tizzi raccolti alla fine del falò.
Poi tutti alla messa di mezzanotte, a belar dal freddo e cascar dal sonno.
Correvano i primi anni Cinquanta a Campeda, un mondo oggi tanto lontano da chiedersi se davvero sia mai esistito.