Il sole aveva appena illuminato il piccolo borgo di montagna: il prato, l’unico punto pianeggiante dove la famiglia di agricoltori pascolava le poche mucche a disposizione, rilasciava i vapori freddi della nottata appena trascorsa.
Sopra e sotto al borgo la montagna era aspra, selvaggia, con pareti scoscese e dilavate dalle piogge e dalle valanghe invernali. Loro vivevano lì, da sempre, come avevano fatto i loro avi da generazioni, continuavano la dura vita di sostentamento con animali da cortile e mucche, un orto, tanti prodotti del sottobosco e il pane, cotto nel forno a legna, che ogni due settimane accendevano per il rito.
La borgata di Tonio
Una semplice strada arrivava alla borgata di Tonio; questo il nome del borgo, ereditato dal primo abitante che qui edificò casa: Antonio del Cucco. Era una bellissima mattinata di autunno, di quelle giornate calde che ti fanno presagire l’imminente arrivo dell’inverno: proprio per questo ogni giorno era da assaporare intensamente.
Maria aveva acceso il fuoco nel forno, per scaldarlo e prepararlo per la cottura del pane integrale. Il fumo che saliva dal borgo velocemente, per mancanza della bassa pressione, fece da segnale al viandante in cammino: da tempo cercava un ristoro. Dirigendosi verso quel segnale di fumo che gli sapeva di casa e intimità, vide da lontano il borgo adagiato in quell’unico punto pianeggiante, circondato da pareti scoscese di montagna. Intravide lo stradello che portava alle case e si diresse in quella fotografia di vita: aveva fame e sonno e da molto non dormiva comodamente.
Arrivato al borgo lo accolse il cane Zara che, vicino allo steccato, gl’impose lo stop. Giacomo, marito di Maria, accorse a vedere la novità dell’abbaio del cane e vide l’uomo, fermo al cancello, che chiese se era possibile, pagando, mangiare qualcosa. Giacomo aprì il cancello della recinzione e accolse l’uomo nella sua proprietà. Subito Maria s’adoperò per preparargli una decorosa colazione contadina, di quelle che diventano un pasto completo: latte di mucca caldo, caffè bollente, pane casereccio, formaggio, insaccati, due funghi sott’olio e un paio di bicchieri di vino rosso.
“State in un posto meraviglioso”, esordì l’uomo. Giacomo, il contadino, con un sorriso leggero sulle labbra rispose: “Meraviglioso o no, questo è quello che i nostri avi ci hanno lasciato in eredità e noi continuiamo a viverci. Non credere sia facile: pochi pascoli, inverni nevosi, faticare tutto il giorno per campare dignitosamente… Almeno l’acqua fresca l’abbiamo e non la paghiamo!”, concluse ridendo…
Intervenne Maria: “La fatica e la bellezza di vivere quassù si equiparano; non si spiegherebbe, altrimenti, la scelta di mia nonna Natalina che è arrivata a 102 anni, ancora viva e vegeta e che quassù è sopravvissuta alla povertà, a due guerre mondiali, alla spagnola, al fascismo, a nove figli da crescere e una vita di duro lavoro…”. “Siamo una piccola borgata di questo vasto comune montano, ultimo a sud di questa Provincia, un tempo regno della Casa d’Este austriaca: ci piace l’accoglienza perché abbiamo tre figli e il più grande studia in città: è bravo e merita continuare.
Accogliamo perché pensiamo che altri possano, al bisogno, accogliere anche nostro figlio: male non fare e paura non avere, diceva un vecchio detto e noi, timorosi di Dio, continuiamo a insegnare quello che ci hanno insegnato i nostri vecchi, anche se capiamo che il mondo va avanti e cambia, giustamente. Se vuoi, puoi riposare nella stanza di Andrea: lui è a studiare e torna solo il fine settimana. Nel frattempo, Maria cuocerà il pane e dopo aver pranzato alla nostra umile tavola, riprenderai il cammino in compagnia di una bella pagnotta di pane caldo: che dici?”.
“Molto volentieri. Siete davvero gentili. Nel mio pellegrinare, ne ho incontrate di persone ma mai generose come la povera gente… senza offesa! Mi sono reso conto che più le persone sono umili, più capiscono il bisogno…”.
Giacomo rispose: “Mi sembri come il Duca di Modena che, infreddolito, una sera d’autunno capitò nel nostro comune e, senza farsi riconoscere, bussò ad una porta per ospitalità e gli fu aperto. Dopo, la padrona di casa, senza curarsi di chi fosse il viandante, lo rifocillò adeguatamente. Il Duca, mosso da curiosità, volle capire se davvero quel paese era fedele alla Casa D’Este e cominciò a parlar male di se stesso. Improvvisamente la donna lo fermò e gli disse che non voleva sentir parlare male degli Estensi, ai quali quel Comune aveva giurato lealtà. Il Duca, sorpreso, si presentò e si fece accompagnare dall’allora Governatore, dichiarando che qualsiasi desiderio il paese esprimesse, lo stesso Duca glielo avrebbe concesso. Al suono delle campane si radunò immediatamente tutto l’allora consiglio e il popolo e, venuti a conoscenza della gratitudine elargita dal Duca D’Este, presero la decisione di voler celebrare il carnevale per un mese di fila, cosa allora molto proibita. Il Duca acconsentì e tutta la popolazione fece festa anticipata, ringraziando ancora il Duca dell’omaggio elargito, alla faccia degli altri comuni che non poterono festeggiare il carnevale così tanto a lungo… E i Fiumalbini non si lasciarono scappare l’occasione!
Ma tu non sei il Duca di Modena ma un escursionista che ha tempo di girare il mondo, e fai bene. Noi siamo restati qui, in questo borgo e su questo prato c’è tutto il nostro mondo, bello o brutto che sia a noi piace e non potremmo farne altrimenti. Non sapremmo fare altro che i contadini: pensa che abbiamo ancora un contratto di mezzadria, cosa che oramai non si usa quasi più: i padroni ci mettono casa e animali, noi la manodopera e dividiamo al 50% su costi e ricavi.
Il cibo di campagna
Il cibo di campagna era quello, tale è restato: maiale in tutte le salse; animali da cortile quali anatre, conigli, galline e faraone in umido o arrosto; patate; formaggi di mucca e pecora; verdure dell’orto; prodotti del sottobosco quali funghi o marmellate di lamponi, ribes e mirtilli neri; pane integrale fatto in casa. Solo le crescentine erano cotte nelle tigelle, stampi di terra argilla poste nelle braci del caminetto, quasi tutte le sere, dall’autunno alla primavera: certi giorni pure in estate.
La crescentina
La crescentina era il pane, il companatico che accompagnava tutti i cibi tradizionali del mondo contadino: acqua e farina che, impastati, diventavano dischi rotondi da adagiare su dischetti di pietra argillosa, le tigelle, posati dentro alle braci incandescenti. La tigella, donando il calore accumulato, cuoceva il disco di pasta, la crescentina, rendendola calda e croccante e ottima d’accompagnare ai vari intingoli d’umido o ai formaggi, inimitabili con gli affettati.
Era il cibo dei contadini. Oggi prelibatezza che ancora si accompagna alla cucina montanara e contadina, anche se spesso vengono abitualmente chiamate tigelle, con giusta rabbia degli addetti ai lavori. La Crescenta odierna non manca mai sulle nostre tavole, e ben si sposa anche da portare in giro per montagne, sui bivacchi montani, nei pic-nic estivi o dove meglio si preferisce”.
Passarono alcuni giorni finché Giacomo, ricolmo di cibarie e prelibatezze nello zaino, quale ultimo regalo dei due anziani contadini, salutò e riprese il viaggio, versando una lacrima di nostalgia e compiacenza, verso quelle due persone che manco conosceva e che lo avevano trattato come un figlio.
L’assalto estivo alla montagna
In quei monti ci tornò ad agosto e, dopo il lockdown imposto a primavera, Giacomo si trovò una marea di gente sul crinale, sui passi appenninici, nei rifugi, nei bivacchi, sui torrenti e su tutti i sentieri della montagna che stava percorrendo.
Amara, però, si rivelò l’orda barbarica che incontrò: lungo il percorso sempre più carte, cartacce, cacate in tutti i posti del bosco, funghi distrutti, urla e schiamazzi, rifiuti abbandonati ovunque, torrenti presi d’assalto come fossero piscine, pisciate alla luce del sole, alberi incisi con iniziali o promesse ingenue d’amore… “Il più brutto anno per la montagna”, esclamò Giacomo. Mai avrebbe pensato di vedere ridotta così male la montagna tutta, in largo e in lungo. Presto si rese conto di come l’uomo, non conoscitore o amante della montagna, per sfuggire alla calura estiva e al Covid, aveva scelto la montagna come casa, con annessi e connessi. Anche al mare, sentiva, la situazione non era meglio: insomma, dall’anno dell’ipotetica rivincita, si era passati all’anno della disfatta generale.
“Popolo strano che siamo – pensò-; ci vengono imposti sacrifici, anche economici, e noi gettiamo alle ortiche tutto il pregresso faticosamente conquistato; la montagna come sentiero di riscatto, è diventata una pattumiera generale e volgare”. A Giacomo venne pure l’idea d’abbandonare il suo trekking, non ne valeva la pena continuare a schivar gente, urla e cumuli di cacate collettive come fossero paletti da slalom. Poi vinsero, ancora, i tramonti e le albe che rigeneravano il suo spirito.
“Certo che il popolino italiano, se ce ne fosse stato bisogno, aveva confermato, ancora una volta, che non siamo padroni di noi stessi”. Davvero l’anno della riscossa, l’estate 2020, fu la stagione più drammatica per la montagna. Intanto, agli occhi di Giacomo, il cangiare dei primi colori autunnali lo spronò ad accelerare il passo verso la propria meta prefissata.
Spesso pensò ai due contadini che con amore, senza nessuna moneta in cambio, gli avevano dato tanto e allo spettrale comportamento dei fruitori della montagna in quell’estate davvero orrenda: la più brutta, da quando Giacomo calcava i sentieri.
“A tutti noi spetta il dovere di lasciare un mondo migliore”, pensò.
Nelle foto a corredo del servizio due immagini di “Thrashed Abetone”, una giornata di raccolta di piccoli rifiuti abbandonati dai turisti lungo i sentieri di Abetone, della Val Sestaione e della Val di Luce durante il periodo estivo.