CAMPEDA (SAMBUCA) – Da qualche anno ho preso l’abitudine di andare a cercare il Natale là dove va stanato e mantiene i suoi crismi di verità. Dopo Lucchio, Rivoreta, Lignana ecco che per questo 2020 mi sono avviato verso Campeda, un paesino della Valle del Reno.
Sulla strada Traversa di Pracchia, Campeda
Si scorge dalla strada Traversa di Pracchia, Campeda. Con la macchina, viene fatto di rallentare e domandarsi come diamine ci si arriva a quel grumo di case conficcate nella montagna sulle quali vigila, ritto come una matita appuntita, uno di quei campanili che per profilo e forma si riescono a intravedere soltanto negli avamposti appenninici delle terre emiliane.
Il campanile ci attende
Si allunga tra i rami scheletriti di dicembre, quel campanile. Vuole essere visto. Guarda se qualcuno lo guarda. Pensare che qualcuno si rechi fin sotto il campanile a vedere se quel paese è uno dei nidi del Natale è evento raro, gesti che, se incontri qualcuno, creano stupore.
Ma chi vuoi incontrare a dicembre sulla via per Campeda?
Solo il campanile sembra attendere. E aspetta un viandante, nel silenzio più assoluto.
Si deve passare da Molin del Pallone per guadagnare, a piedi, la via per Campeda. C’è da passare oltre un tunnel che porta sul groppone la ferrovia. Poi, è solo natura.
Di quella lasciata senza guinzaglio, pronta a riprendersi senza sconti e senza remore ciò che un tempo era ai comandi di un’ umanità che si è scollata da tutto ciò che è naturale e selvatico.
La frontiera del Reno
Più che la ferrovia, è il fiume Reno a porsi a frontiera: ha avuto un destino singolare, quel corso d’acqua. Singolare, perché gli è bastata una ruga di monte, diversa dalle altre per conformazione e orientamento geografico, per essere separato da tutti gli altri torrenti che, diversamente da lui, hanno preso la via del Tirreno.
Lui, Il Reno, no. Sin dai primi metri del Monte Le Lari ha fiutato la via del salmastro e ha deciso di percorrerla, da solo, fino al mare che fa da specchio alle albe, l’Adriatico.
Residue e logore tracce di neve maculano il sentiero per Campeda. Se vuoi stanare il Natale, la prima regola è evitare le strade asfaltate. Per arrivare su in paese ce n’è una, ma meglio evitarla: una distrazione e rotoli inscatolato nell’auto per trecento metri.
Perché Campeda
Scorci di Campeda. Le foto del servizio sono di Andrea Piazza
Ho scelto Campeda perché il Natale ama trascorrere il Natale nei luoghi dove, per incontrarlo, bisogna andarci di proposito. Campeda non è un posto di passaggio, non è sulla direttrice di zone famose o scintillanti di parodie natalizie: è laddove ti devi recare di proposito che raccogli il vero senso delle cose, la potenza delle radici, l’essenza, ultima, di certi valori.
In questo caso, il senso ultimo del Natale. Altrove? E’ stuprato.
Si fa desiderare un po’, Campeda. Il sentiero, sporco e a tratti imboscato, istiga quasi a rinunciare, a chiederti “ Ma dove vuoi andare? Qui, ormai, sono decenni che sento voi umani dire che non c’è nulla: non lo sapevi? Torna indietro, brodo!”
E’ comunque bello, il viottolo. E’ uno di quelli che ti guarda in faccia da tanto che è ripido. A renderlo più agevole sono i tanti tornanti che consentono di salire a favore di passo, tra castagni e carpini, dirupi e frane, merde di caprioli e lamenti acuti di poiane.
La storia lungo i viottoli
Sotto gli scarponi, la storia. Non certo quella ufficiale, bensì la storia dell’umanità, di generazioni che su quei viottoli dalle pietre consumate andavano, tornavano, passavano e ripassavano per necessità e non per la moda tutta contemporanea di camminare per l’ esercizio fisico del trekking: lasciare a i muscoli il loro spazio. Nutrire l’anima, cuore e cervello a suon di scarponi consumati è la vera essenza del camminare.
La Cà di Angiolino
Immerso in quei boschi, sento che non sono ancora arrivato dove credo poter trovare il Natale. Ho conosciuto una sua prima, antica, dimora. Le carte ne riportavano il nome: Cà di Angiolino. Un tempo, dove essere una bella casa. Oggi ha il bosco sul groppone, il cielo ci si siede dentro e ha arredato le varie stanze di sambuchi, vitalbe e acacie. Vedo una pietra di un architrave, tra le macerie. Vi è incisa una data, 1804: mi verrebbe fatto di sotterrarla, ché così il rudere, forse, risparmio al rudere i morsi della nostalgia.
Su quella pietra, ho appoggiato un ramo di abete.
Il Natale senza voce
E’ anziano il Natale, quello vero. E se non ce la fa più a salire in certi posti, oppure perché nessuno ne reclama la visita, è bello che in quei posti ci sia un pensiero del Natale.
E’ stato, il mio, un pensiero sobrio, essenziale. Il Natale psichedelico e fatto di luci isteriche è lo stupro che gli uomini perpetrano a quella festa, in una contesa tra chi riceve più consensi per certi addobbi che del Natale nulla hanno e tutto esprimono della spocchia umana.
Non bastano le stelle?
Qualcuno ha mai chiesto al Natale come vuole essere vestito, semmai?
Probabilmente no.
Non ha voce. Oppure, quella che aveva l’ha persa, soffocato dalla deriva consumistica e che nemmeno la pandemia ha arginato, se non per imposti obblighi governativi.
E allora lui che fa?
Si ritira nei luoghi a lui più congeniali. Lo cerco, in questi posti.
Dietro la curva sbuca Pidercoli
Ancor prima di arrivare a Campeda, c’è un luogo dove il Natale sembra essersi alloggiato a dovere. Si chiama Pidercoli. Per arrivarci c’è da tornare a patti con la Natura e chiederle il favore di restituirci il privilegio, e non il diritto, di riaprire un sentiero che gli uomini moderni hanno abdicato e che pare un tunnel di rovi.
Il pennato è un valido aiuto, in questi casi.
Si vede sbucare da dietro una curva del sentiero, Pidercoli. Sono tre case – tre, costruite a favore di un esposizione buona per arraffare quei pochi raggi di sole che gironzolano per queste valli strette che, se non ci fossero le acustiche del Reno, non capiresti quando e se hanno una fine.
L’incanto del silenzio
Da lontano, mi viene fatto di intuire che, forse, è lì, a Pidercoli, che alberga il Natale. E’ il silenzio che mi dà questa suggestione. Non si spiega con l’assenza di rumori, quel silenzio lì. E’ roba che travalica l’udito. Si apprezza sulla pelle scoperta, si lascia guardare. E, niente si tocca, nemmeno si fiata, per evitare di romperne l’incantesimo.
Un borgo abbandonato
Pidercoli non ha luci, alberi addobbati, presepi. E’ un borgo abbandonato, animato soltanto da sciami di vespe incoraggiate dal tepore del mezzodì e intente a svolazzare attorno a un pergolato di uva fragola, grappoli abortiti dal disinteresse di chi dalla montagna se ne va ai primi di settembre, grappoli che, però, continuano a crescere, maturare e marcire perché quello è il loro ciclo di vita e poco male se gli uomini hanno già deciso da tempo che i monti sono stati già spremuti a dovere durante la parentesi estiva. Oltre, sono luoghi che non meritano attenzioni.
Non per me.
Cerco il Natale, a Pidercoli.
Cerco un tentativo di addobbo, un filo argentato… Niente.
E’ tutto fermo al gesto ultimo dell’ultima estate: una sedia reclinata, un mozzicone di candela, qualche cicca, un barbecue dalla cenere che l’autunno ha reso colla.
L’ingresso a Campeda
Vado oltre. Ho Campeda ormai a vista.
Entro nella piazzetta centrale: è deserta.
In un angolino, penzoloni da una porta, vedo un qualcosa che luccica. Mi avvicino.
E’ una stella di Natale.
L’unico segno di ricordanza umana verso quella festività.
Alzo un po’ la voce, canticchio, cammino volutamente appesantendo il passo e sbatacchiando gli scarponi.
“Qualcuno uscirà?” mi domando.
Macché, non c’è anima viva.
Non importa.
A rendere vivo, perché vero, il Natale di quel posto è quella stella appesa alla bell’e meglio su un portone di legno.
Il campanile, quello a forma di matita, è a pochi passi e non può non vedere l’addobbo.
Chi l’ha lasciato, se n’è poi andato.
Il campanile lo sa che è stato messo lì per lui: perché i luoghi, ancor prima delle persone, devono sapere che è Natale.
Sobrio, essenziale, consegnato agli ultimi.
Vero.
Buone festività.
Fede Pagliai