Introduzione
CAMPEDA (SAMBUCA) – Tempi bui quelli che il nostro paese e il mondo intero sta vivendo in questi giorni. Non vogliamo pensare al peggio ma la situazione che tutti viviamo da reclusi in casa è allucinante, a dir poco. E allora proviamo a viaggiare con la fantasia…
Da tempo sogno di ritornare sui miei monti, in Campeda, dove sono nato un bel po’ di anni fa giusto in tempo per vedere com’era il mondo di una volta. Gente magrissima, malvestita, continuamente indaffarata, che si muoveva sempre portando qualcosa sulle spalle, gli uomini, o, al braccio, le donne. Lavoravano anche i bambini, pronti a far la loro parte dai quattro/cinque anni un su. Eppure ricordo gente allegra, dalla risata fragorosa a bocca aperta con vuoti di dentatura impressionanti e nere carie in bellavista, disposta dopo una giornata di fatica ancora a sudare in concitate polche e mazurche. Gente precocemente vecchia e morta – si direbbe ora – ancora giovane, i più tra i cinquanta e i sessant’anni. I giovani veri, tutti, appena han potuto son scappati nei primi anni ’50, seguendo l’esempio dei tantissimi che già avevan fatto fagotto nei decenni precedenti per le destinazioni più varie. Io, terzultimo nato, in coda, alla volta della bella Mantova.
Così le tre borgate a monte di Campeda son rimaste vuote.
Peste e leggende a Campeda
Visto che sto viaggiando con la fantasia, mi porto direttamente sulla soglia di casa, e quindi non ho bisogno di infrangere altro divieto rappresentato dalla sbarra che vieta il transito sull’unica strada percorribile in auto che da Molino del Pallone porta a Campeda. Visto che non c’è un’anima qui il Coronavirus non arriva di certo…
Molti hanno rievocato la peste, cosa che per tutti era fin a ieri solo un ricordo letterario. E il pensiero corre al Decameron, e all’allegra brigata dei dieci giovani riparatasi nel contado di Firenze per sottrarsi alla peste del 1348. O alla peste sapientemente narrata nei Promessi Sposi (Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci…). Anche Campeda ha la sua leggenda in tema di peste, e ve la voglio proprio raccontare: anche se la mia fonte non è rigorosa come quelle consultate dal Manzoni. Ho infatti scoperto col tempo che lo zio Piero nelle storie che mi raccontava da bambino ci ricamava un po’. Difficile anche inquadrare il periodo in cui avvenivano i fatti narrati, perché l’inizio di ogni racconto era sempre quello “Soquanti anni fa…” e nel dialetto campedano (e sambucano in genere) non c’è aggettivo che possa classificarsi più indefinito di così, spaziando da decenni a secoli, per quel “non” sottinteso (soquanti, ovvero non so quanti). Comunque la vicenda doveva essere molto antica se è vero che il nonno dello zio, ovvero mio bisnonno, nato nel 1835 ne aveva conservato lui stesso un ricordo impreciso. Ma veniamo al racconto.
La pestilenza a La Ca’
Esisteva, e i ruderi son lì ancora testimoniarlo, una casa isolata, detta per l’appunto La Ca’, prospiciente la strada mulattiera che si diparte da Campeda Vecchia e porta alle Casette, e di lì a Sambuca. Succede che scoppia una pestilenza (questo il termine usato dallo zio Piero) e tutti gli abitanti dei paesi intorno s’erano rintanati nella propria casa; sembra che anche il pievano (così a Sambuca si chiama il parroco), resosi conto del pericolo di contagio, s’era guardato bene dall’andare in giro a portare il conforto dei sacramenti. Non si sa come e perché – proseguiva lo zio – la malasorte prese di mira proprio La Ca’ e la famiglia numerosa che vi abitava: cominciò a morire prima il padre, poi un figlio e un altro ancora. Nessuno passava più da quella strada e così, oltre a non aver soccorso alcuno i vivi, anche i morti diventavano un problema. Toccò alla madre e fresca vedova provvedere alla sepoltura e, quasi per allontanare il pericolo da casa, pensò di portare quei corpi lontano. Si dice che presa una scala a pioli vi caricasse un morto dopo l’altro, trascinando il carico col favore della discesa giù alla Piana, un bellissimo castagneto di loro proprietà. Dieci volte compì questo tragitto, quanti erano i componenti della famiglia, meno uno. Sembra infatti che l’ultimo figlio, ancora lattante (e forse proprio per questo), sia stato l’unico a salvarsi con la madre. Passata la pestilenza e sparsasi la voce in giro di quanto era successo, la gente cominciò a dire che quel bambino, per essere scampato a tanto, doveva essere figlio del diavolo: tanto che i discendenti dei Vivarelli della Cà da allora sono conosciuti come “i Diavoli”. Con una connotazione positiva, ben s’intenda, di gente che si è fatta valere, come succede a chi ha dovuto affrontare e superare una grande sventura.
La croce in ricordo del tragico evento
A perenne ricordo del tragico evento fu posta una gran croce di legno, rinnovata via via nelle generazioni a seguire: ben ricordo infatti la croce, ancor fatta di fresco da uno degli ultimi discendenti – quel Fozio Claudio Vivarelli (1907-1958) che ho conosciuto bene da bambino – croce posta in prossimità della svoltinella (piccolo tornante) che fa la strada mulattiera salendo giunti al limite della Piana.
Le origini di Campeda
Per una mia curiosità personale – visto che ormai di Campedani non ce ne sono più – da anni vado alla ricerca delle origini di Campeda, sperando di scoprire il nome di quel “matto” al quale per primo venne in mente di prendere fissa dimora in questo ultimo versante toscano d’Appennino che accompagna il fiume Reno di lì a poco in Emilia, a Ponte della Venturina. Le ricerche d’archivio le ho condotte in prevalenza sullo “Stato delle anime”, una sorta di censimento che periodicamente stilavano i parroci a seconda della propria diligenza, e in parte nei Registri parrocchiali dei Nati e dei Morti, dove è facile perdersi perché nomi e perfino i cognomi sono sempre i medesimi. Nei documenti consultati, comunque, non ho trovato riferimento alcuno al fatto sopra narrato.
Certo, ripensando alle condizioni igieniche di un tempo e all’assenza, o quasi, di assistenza medica e cure efficaci, si fa presto a rendersi conto di come epidemie di tifo, colera, vaiolo potessero innescarsi periodicamente, e falcidiare la popolazione, senza per forza risalire alla peste.
Ritornando agli abitanti della Ca’ e ai documenti che ne parlano, francamente mi ha sorpreso trovare proprio qui un figlio unico di madre vedova, certo Stefano Vivarelli di Andrea quondam Stefano, nato nel 1694 e morto nel 1766 alla bella età per allora di 72 anni. Lui e l’eroica madre Maria Maddalena potrebbero essere quindi i reali protagonisti del racconto dello zio Piero?
Il bello delle storie
Con certezza non lo potremo sapere forse mai. Ma proprio questo è il bello delle storie che, per quanto alimentate nel tempo da chi ci ha aggiunto qualcosa di suo, hanno lasciato un segno concreto, tangibile: come una croce di legno in un bel castagneto rinnovata con devozione nei secoli.
Ora quella croce è là, ridotta in due monconi che ho raccolto e appoggiato al castagno vicino l’ultima volta che sono passato per la Piana, ripromettendomi un giorno di ricollocarla al suo posto. E lo farò senz’altro, non appena questa nuova pestilenza chiamata Coronavirus mi consentirà di uscire da questa terra lombarda così duramente colpita.