Ambiente, Economia  |  maggio 1, 2020

Gli orti di collina e di montagna: una risorsa “filosofica”, economica e ambientale

Già negli Statuti medievali dei Comuni montani e in quelli dei Castelli del secolo XVI erano disciplinati da regole precise. Con lo spopolamento degli ultimi 70 anni, si sono ridotti sensibilmente i terreni coltivati, occupati dal bosco e colonizzati dagli animali selvatici. Ma coltivare un orto è soprattutto una scoperta o una riscoperta. E ha molti vantaggi pratici

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La premessa storica

A sentire Antonio Matani, celebre scienziato pistoiese del secolo XVIII (1730-1789), l’intero territorio di Pistoia e della Montagna era a quei tempi ricchissimo di campi coltivati, orti e giardini.

Nella sua Relazione delle produzioni naturali del territorio pistoiese l’autore rammenta come Pistoia fosse considerata fin dall’epoca antica Terra annonaria per la grande ricchezza di grano e come anche in Montagna se ne coltivasse una varietà particolare.

Infatti a San Marcello, Mammiano, Gavinana, Cutigliano, Popiglio e Lizzano si produceva in abbondanza il Marzolo, detto anche Trimestre, perché poteva essere seminato all’inizio della primavera e mietuto tra Giugno e Luglio.

Analogamente il Matani rammenta come ci fosse abbondanza di orti e di giardini in cui si coltivavano ortaggi erbe e fiori di ogni tipo. Anche le viti e il vino pistoiesi erano tutt’altro che disprezzabili, soprattutto quelli di Candeglia, Vinacciano, Giaccherino, Montale e Casale, mentre nella stessa opera si definisce il vino della nostra Montagna come particolarmente acido. Eppure non c’erano terreni montani, a qualsiasi altitudine si trovassero, in cui non fosse presente una vigna.

Dalla lettura di quest’opera emerge quindi un territorio pistoiese particolarmente verde e curato e perfino Le Mura e i Bastioni erano circondati da orti e giardini che impreziosivano esteticamente la città.

Gli orti di Montagna negli antichi documenti

Risalendo il corso dei secoli è possibile costatare come già negli Statuti medievali dei Comuni montani e in quelli dei Castelli del secolo XVI gli orti fossero disciplinati da regole precise. Nello Statuto del Comune di Sambuca, datato 1291, si prescriveva, ad esempio, che ogni capofamiglia, evidentemente per provvedere a se stesso e per non gravare sulle risorse comunali, dovesse realizzare un orto; e qualche secolo dopo, nel 1579, lo Statuto del Castello di Crespole stabiliva che ogni famiglia avesse il compito di piantare obbligatoriamente almeno 50 piante di cavolo. Le multe per chi non rispettava quest’obbligo erano gravose. E sanzioni severissime venivano comminate a chi rubava o saccheggiava a qualsiasi titolo orti, frutteti, vigneti, campi, boschi e castagneti, perché la protezione dei beni era tutelata al massimo e andava di pari passo col rispetto della cosa comune e dell’ambiente.

E’ esemplificativo che lo Statuto di Calamecca, della fine del 1500, contemplasse l’articolo secondo cui i campi e gli orti a fine coltura fossero lasciati spianati e non con solchi e avvallature, per evitare il dilavamento dei terreni con le piogge autunnali. A noi sembra strana una disposizione del genere, ma si tratta di un esempio di quanto fosse temuto anche allora il dissesto idrogeologico, come diremmo noi oggi.

Gli orti di collina e montagna oggi

Con lo spopolamento degli ultimi 70 anni, la Collina e la Montagna pistoiesi hanno visto ridursi sensibilmente i terreni coltivati, che via via sono stati occupati dal bosco e colonizzati dagli animali selvatici. Tuttavia ci sono varie ragioni che inducono a pensare ad una timida inversione di tendenza. I limiti della globalizzazione, l’inquinamento, la congestione delle città, l’aspirazione un tipo di vita più “umano”, il fascino della terra e, non ultimi, gli effetti psicologici ed economici della pandemia attuale, sono solo alcune delle molle che spingono anche giovani a meditare scelte controcorrente di tipo più naturale.

Per non deviare dal tema e limitarsi a parlare degli orti delle Terre alte, essi rivestono a tutt’oggi un ruolo importante almeno sotto tre aspetti: etico-filosofico, economico e ambientale.

Intanto far l’orto quassù è una sfida, è una corsa ad ostacoli contro gli animali selvatici, contro il clima, contro la miopia delle istituzioni e il burocretinismo che scoraggia il recupero di vecchi campi ora invasi dalla vegetazione e soprattutto contro l’idea comune del minimo sforzo unito al massimo risultato, in base alla quale basta avere soldi in tasca e acquistare ciò che serve ad un supermercato qualsiasi , sicuramente ad un prezzo inferiore.

La riscoperta di coltivare un orto

Ma coltivare un orto è soprattutto una scoperta o una riscoperta: di se stessi, delle proprie competenze e versatilità, dello spirito di sacrificio, della propria dimensione naturale, della capacità di osservazione del quotidiano, di un ritorno alle radici e, non per ultimo, dell’orgoglio dell’homo faber che in quel fazzoletto di terra coltivata vede realizzarsi il miracolo di poter provvedere a se stesso e con le proprie mani, finalmente arbitro, seppure in un minuscolo microcosmo, della propria fortuna. Ma l’orto è anche una scoperta di sapori dimenticati e di una cultura per troppo tempo oscurata dal consumismo di massa.

I vantaggi economici

Anche dal punto di vista economico (in senso lato) i vantaggi sono considerevoli: si può realizzare il vero bio che non ha nulla a che fare con quello certificato e realizzato in aree magari ad alta densità di inquinanti, si può disporre di verdura e frutta al giusto grado di maturazione e, per chi possiede qualche campo, di un po’ di grano di varietà antiche con cui fare pane e focacce dal sapore dimenticato, si evitano gli sprechi alimentari e si impara una gestione parsimoniosa dei beni che ci circondano; in cucina, poi, l’orto stimola la fantasia creativa indotta dalla abbondanza della verdura e della frutta di stagione. Per non parlare, infine, dei benefici terapeutici del vivere naturale che, secondo molti scienziati, tiene lontani gli stati d’ansia e le patologie da stress.

I benefici ambientali

Ma i benefici sono anche di ordine ambientale, perché un orto, un campo coltivato o anche un frutteto inerbito sono presidi contro l’abbandono del territorio e contro i rischi idrogeologici, sono un incoraggiante segnale di sana resilienza e per di più conferiscono al paesaggio un aspetto armonioso in cui trovano perfetta composizione la libera creatività della natura e la sapiente e ordinata cura della mano umana.

Insomma chi può far l’orto, lo faccia, prendendo anche a prestito un pezzo di terra e, se è un neofita, si documenti, con l”auspicio che questa pratica antica, tanto nobile quanto gratificante, si diffonda come un virus, dagli esiti questa volta benefici per gli individui e la società.


Maurizio Ferrari

Maurizio Ferrari, sambucano di origine, ha insegnato Lettere per 38 anni nelle Scuole superiori pistoiesi. Ora è imprenditore agricolo e si sta impegnando nella promozione e nel rilancio del territorio appenninico come Presidente dell'Associazione "Amo la montagna APS" che si è costituita nel 2013 e che ha sede a Castello di Cireglio.Ha collaborato per 25 anni alla rivista "Vita in Campagna", del gruppo "Informatore Agrario". Recentemente ha pubblicato alcune raccolte di racconti ispirati alla vita quotidiana di Sambuca, dal titolo :"Dieci racconti sambucani"; "La mia Sambuga" e "Cuori d'ommeni e di animali", nonché una favola per bambini, "La magìa della valle dimenticata" illustrata dagli alunni della scuola elementare "P.Petrocchi " di CIreglio (Pistoia)