La ricerca  |  settembre 10, 2019

Com’era dura la vita dei nostri boscaioli in Maremma

Erano tanti i carbonai dell'Appennino che cercavano di guadagnare un salario da fame per l'inverno. Tra stenti, solitudine e malaria. E non a caso tante imprecazioni e bestemmie di allora sulla Maremma (“porca”, “boia” “cane”…) sono ancora conosciute ed usate. I più giovani trovavano anche l'anima gemella. Lo conferma un detto che recita così:”Per fare un grossetano, uomo di Pistoia e donna di Scansano”

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La Maremma di un tempo

“Quando in Maremma siamo raddotti, ognuno pensa per sé, Cristo per tutti”, era un detto che correva spesso tra la gente, quando in tempi passati era un inferno vivere in questa terra.

Maremma, terra di febbri malariche, di perniciosa, d’insolazione, di vipere, di tarantole, di tori, di macchia ed altre bestie selvatiche, con la paura di incontrare banditi che potevano toglierti quei pochi, sudati, miseri guadagni. Un tempo la Maremma, che qualcuno ha definito il “Nostro Far West”, era questo.

I carbonai dell’Appennino in maremma

Con zaino sulle spalle pieno di castagne, trascinandosi per mano a volte il figlio e dietro a moglie, i boscaioli e i carbonai del nostro Appennino si incamminavano alla volta di Talamone, Tirli, Scansano, Manciano, Capalbio, Magliana, luoghi che consentivano loro di guadagnare un salario da fame per tutto l’inverno. Correnti imprecazioni e bestemmie,ancora conosciute ai nostri tempi, erano “Porca Maremma”, “Maremma cane”, “ Maremma boia “ e via dicendo. Lo attesta anche una struggente canzone popolare di un’anonima montanara pistoiese rimasta sola con vecchi e bambini, la famosa “Tutti dicon Maremma, Maremma”.

I giovani e le anime gemelle

I più giovani vi trovavano l’anima gemella, la “morosa”, come usavano dire; si sposavano, mettevano su famiglia e vi si stabilivano per sempre. Li chiamavano “lombardi”, perché venivano dal nord.

Un detto maremmano fa ancora onore alla nostra gente e recita così :”Per fare un grossetano, uomo di Pistoia e donna di Scansano”. Ho spesso trovato, frequentando la Maremma, cognomi di gente nostra, famiglie che provenivano da di Iano, Villa di Baggio, Baggio, Santomoro e da altre borgate e paesi delle nostre colline e montagne.

Scriveva Eugenio Cecconi, pittore e poeta livornese: “…l’inverno si avvicina, la neve comincia ad apparire nelle faggete del Libro Aperto ed i tagliaboschi scendono dalle colline e dai monti del nostro Appennino, i pennati alla cintola, il sacco, il paiolo, spesso il fucile in spalla, non di rado strascicando un figliolo per la mano ed una coppia di cani per la corda e s’avviano in Maremma”.

E diventavano “i musi neri pistoiesi”, occupati com’erano a far carbone.

La malaria

La malaria è stata protagonista assoluta nella Maremma di ieri. La “statatura” o “estatura” era la transumanza degli abitanti che dalla pianura si trasferivano in collina, da giugno a ottobre, per salvarsi dalla malaria.

Il morbo era dilagato già dai tempi dei Romani, originario dell’Africa. Quello che aveva permesso agli Etruschi di salvaguardare la disciplina delle acque, si era perduto completamente nella conquista romana della terra d’Etruria, per cui i corsi d’acqua dell’Albegna, del Cornia, del Cecina, del Fiora e dello stesso Ombrone grossetano, tracimavano nei terreni circostanti formando paludi e acquitrini.

Anche le successive dominazioni dei barbari non cambiarono nulla e quello che rimase della civiltà ebbe vita sulle colline dove il clima era più salubre.

Intorno alle rocche e ai castelli dei feudatari si formarono piccoli centri e nacquero paesi come Massa Marittima, Roccastrada, Sassofortino, Montemassi, Roccalbegna, Tatti ecc.

Anche in tempi più recenti, verso fine ottocento e primo novecento, la malaria colpiva chi scendeva nelle Maremme per guadagnarsi un pezzo di pane e pochi erano coloro che ritornavano vivi nei luoghi d’origine, anche per le condizioni penose della loro vita quotidiana: erano malnutriti, vivevano in capanne, riposavano su giacigli improvvisati e spesso morivano sotto il sole dei campi o per le strade.

La Maremma divora i suoi abitanti

Era voce comune quella che diceva che “La Maremma divora i suoi abitanti” e la durata media della vita lo dimostra; nel 1800 era di soli 21 anni.

Non conoscendo le cause della malaria si riteneva che la malattia si diffondesse per via respiratoria, causa l’aria infetta proveniente dai miasmi, dall’esalazione degli acquitrini e in particolare da quelli che si trovavano in prossimità del mare, dove le acque salate si mescolavano con le acque dolci.

All’aria infetta si univa anche l’acqua, spesso malsana, che scorreva nelle campagne e nei boschi a cielo aperto, bevuta da pastori, montanari ma anche animali di ogni tipo.

La scoperta del parassita che causava la malaria

Dal 1820 venne usato il chinino contro la febbre malarica ed i risultati furono incoraggianti. Questo alcaloide ad azione progressiva venne subito messo in commercio dallo Stato presso le rivendite di Sali e Tabacchi, all’esterno delle quali erano posti cartelli con questa scritta: “Qui si vende chinino di Stato”.

Nel 1880 A.Laveran scoprì il parassita che causava la malaria (la zanzara anofele) e nel 1890 R. Ross definì il ciclo di vita del parassita stesso. Tuttavia, fino alla fine del 1940, quando si diffusero le disinfestazioni col DDT, la malaria continuò ad essere un problema per gli abitanti della Maremma.

Oggi la Maremma è una terra meravigliosa, anche per merito di quei “musi neri”, “lombardi” e “bestemmiatori” che venivano dal nostro territorio pistoiese.


La Redazione

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