Ambiente  |  agosto 27, 2016

SPECIALE TERREMOTO /2 “Il coordinamento dei soccorsi? La svolta dopo il sisma del Friuli”

Elvezio Galanti, ex direttore generale della Protezione civile, ne spiega il funzionamento. Quando e come scatta l'intervento. I tempi per attuarlo. Il coordinamento nella sala comando a Roma. L'importanza dei piani comunali di emergenza. La gestione dello stress. E i danni causati dai terremoti? "In gran parte dovuti alla pessima condizione dei fabbricati. A volte basterebbe poco per renderli antisismici"

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I primi soccorsi (foto CRI)

FIRENZE – Elemento fondamentale degli interventi post terremoto, così come per ogni emergenza ambientale, è la Protezione civile. Elvezio Galanti, geologo, docente universitario, per anni direttore di alcuni uffici del Dipartimento di protezione civile e membro del Dipartimento stesso fin dalla sua costituzione da parte di Giuseppe Zamberletti, nel 1982, conosce a fondo la materia. A lui abbiamo chiesto di spiegarci come funziona questo tassello fonmdamentale del mosaico emergenze ambientali, i limiti che eventualmente ancora esistono nella gestione delle emergenze e cosa è cambiato nel tempo. Galanti parte da una premessa: “Sul fronte del coordinamento dei soccorsi negli anni, soprattutto dal sisma del Friuli in poi, sono stati fatti molti passi avanti. Il vero problema è che i terremoti fanno ancora danni consistenti per cause che dipendono soprattutto, oltre ovviamente all’entità delle scosse, dal fatto che in Italia si è costruito tanto, dove non lo si doveva fare, e male. La vera sfida è prima di tutto costruire edifici antisismici e intervenire su quelli vecchi. Per i quali, fra l’altro, basterebbero spesso interventi minimi, come sbarre di ferro e catene sulle facciate delle abitazioni, con costi più che sopportabili”. Ritardi storici, spiega l’ex responsabile della Protezione civile, soprattutto nel settore privato: “Sugli edifici pubblici sono stati compiuti passi avanti e in molti casi sono stati messi a norma e quelli nuovi costruiti secondo le direttive antisismiche. Lo stesso non può dirsi per le abitazioni private, per le quali manca una sensibilità diffusa. Quando si acquista una casa raramente ci si chiede se risponde a certi requisiti”. La drammatica attualità di questi giorni riporta prepotentemente questo tema in testa all’agenda delle priorità. Allo stesso tempo una catastrofe naturale riporta all’attenzione il grande sforzo organizzativo di chi interviene subito dopo l’evento. La grande macchina organizzativa.

Elvezio Galanti

Elvezio Galanti

Come scatta l’intervento

Tutto inizia con la comunicazione dell’INGV: “La comunicazione arriva dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia che registra in pochi minuti l’epicentro del sisma e lo comunica alla Protezione Civile“, spiega Galanti. In un breve lasso di tempo, realisticamente 15-20 minuti, arrivano i primi interventi sui luoghi colpiti: Vigili del fuoco e Carabinieri delle caserme più vicine. Quindi la catena dei volontari delle varie associazioni sparse su tutto il territorio nazionale, specializzate in calamità naturali, sempre in allerta per qualsiasi emergenza. Si delinea poi l’intera strategia per l’intervento massiccio. Il tutto nell’arco di un’ora. “La Protezione Civile italiana non è un corpo a sé, come accade in altri Paesi, come Stati Uniti o Gran Bretagna – spiega ancora Galanti – ma un sistema “a fisarmonica”, diviso per emergenze locali, interprovinciali, nazionali. Più grave la calamità naturale, più imponente è la gestione dei soccorsi”.

La sala comando

Le emergenze sono gestite da una “sala comando” che coordina tutti gli interventi, presso il dipartimento della Protezione Civile a Roma. Di questa fanno parte coloro che dirigono e coordinano tutte le fasi di gestione dell’emergenza. Nell’ordine: il capo del dipartimento di Protezione Civile; i Vigili del fuoco; il Centro operativo interforze (Forze armate); i Servizi tecnici ; i rappresentanti di gruppi di ricerca scientifica; la Polizia; la Croce rossa; il Ministero della Salute; il Ministero dell’Ambiente; il Corpo forestale dello Stato; le. Organizzazione del volontariato; il Corpo nazionale soccorso alpino; le cosiddette Infrastrutture strategiche (Anas, Enel, Società autostrade, Alitalia e i gestori delle telecomunicazioni).

Agire bene e in fretta

C’è un tempo entro il quale l’intervento dei soccorsi può essere risolutivo e oltre il quale si perdono molte speranze di trovare persone sotto le macerie ancora vive: 72 ore. Farcela dipende da molti elementi, non solo un’organizzazione efficace. “In Friuli del 1976 il numero delle vittime, pur molto alto, si fermò a 980 perché sul posto, a un passo dal confine, si trovava già un quarto dell’esercito italiano. Al contrario in Irpinia – spiega l’ex direttore della Protezione civile – nel 1980, si dovette spostare a Sud la Forza Armata dislocata nel Nord-Est (in massa al confine con la Jugoslavia, molto presidiato a causa della Guerra fredda). La viabilità poco adeguata fece il resto. I tempi per organizzare i soccorsi furono infinitamente più lunghi”. Dal 1982 l’istituzione della Protezione civile ha cambiato il quadro delle emergenze. E i terremoti successivi non hanno fatto registrare particolari criticità nel coordinamento dei soccorsi.

Il quadro della situazione

Ridurre al massimo i tempi dei soccorsi è fondamentale ma non basta. E’ necessario avere già in mano un piano di emergenza più dettagliato possibile, in modo da prevedere il quadro della catastrofe: «In questi anni si è intensificata l’attività di prevenzione per la riduzione dei rischi anche attraverso l’elaborazione di piani comunali di protezione civile», spiega ancora Galanti. Ogni comune stabilisce le attività da svolgere proprio in quelle prime 72 ore post terremoto (o altra calamità): per esempio come far fronte ai bisogni essenziali delle persone, dove raccogliere in sicurezza le persone rimaste senza un tetto, come fornire una corretta informazione. Nodo quest’ultimo al quale Galanti è molto sensibile: «Una volta ce n’era poca, oggi con internet e social network c’è il rischio opposto: troppa ma soprattutto non sempre corretta e proveniente da fonti non accreditate. Invece le persone devono sapere tempestivamente, e da fonti autorevoli, cosa è successo, cosa succederà e che cosa fare».

I primi interventi

“I piani di emergenza sono di grande aiuto per rendere più efficaci gli interventi. Si può lavorare muovendosi meglio sulla scena del disastro”, spiega ancora l’ex direttore della Protezione civile. In questo modo è più facile evitare intralci da presenze inutili (i curiosi di turno); istituire speciali corridoi per trasportare i feriti direttamente all’ospedale da campo, o alle strutture sanitarie più vicine; recintare o presidiare le aree da destinare ai soccorsi esterni (area per elicotteri e parcheggio autoambulanze), le aree di raccolta della popolazione, dove prestare i primi soccorsi e, naturalmente, le cosiddette aree di ricovero, dove installare tende o i primi prefabbricati, e gli edifici da destinare ad usi particolari, dai dormitori alle celle frigorifere per la conservazione delle salme.

La gestione dello stress

Ultimo, ma non per ordine di importanza, il problema dello stress. Perché l’emergenza, avvertono gli psicologi, rende vulnerabili anche i rapporti già collaudati. Può capitare di trovarsi di fronte una banale lite fra soccorritori, con il rischio di intralciare la macchina dei soccorsi. E poi ci sono i comportamenti imprevedibili di chi vive nelle aree immediatamente adiacenti a un disastro che possono causare danni; per esempio chi scappa in auto congestionando il traffico, o blocca le colonne dei soccorsi per segnalare piccoli incidenti, quando le vere vittime non hanno magari neanche la forza di chiedere aiuto.


La Redazione

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